Ormai le ricorrenze1 sono una sorta di rituale ineluttabile per proporre “eventi” o iniziative che in genere giovano soltanto a chi li realizza, ed è tanto inflazionato il costume (in effetti ogni giorno è una ricorrenza) per cui forse un giusto omaggio ai celebrandi potrebbe esser quello di tacere, almeno per un giorno. Nel caso di Dino Campana e del centenario dei Canti Orfici (1914), però, oltre al solito convegno, all’Asor Rosa di rito e a una più che dovuta mostra alla Marucelliana di Firenze, si è registrata nel 2014 una felice eccezione, che si deve a Dino Castrovilli e altri aficionados del poeta: una edizione anastatica del libro (edita da Cronopio), tale da consentire al lettore comune di fruire dell’esatta riproduzione dell’originale stampato a Marradi, accompagnata dal cd con la lettura integrale dei Canti a opera di Claudio Morganti.
Per una volta, nessuna strenna bancaria né ministeriale, nessun comitato di senatori o di accademici, e nemmeno una di quelle utilissime ma spesso illeggibili edizioni critiche di ambito filologico; invece, un’operazione a più livelli, che oltre al reprint e al cd comprende un libretto di accompagnamento con un denso saggio di Gabriel Cacho Millet (Canti Orfici, il libro unico) e una utile Bibliografia. Ed è soprattutto in virtù di questo insieme: l’abbinamento tra il reprint, che ci riporta alle origini del “mito” che è stato ed è il libro dei Canti, con la sua sciagurata vicenda, e quindi per così dire alla primitiva precarietà del manufatto di Marradi, e la lettura tutta contemporanea di Morganti, che il centenario campaniano del ’14 è uscito, felicemente e quasi miracolosamente, dal quadro delle celebrazioni rituali per entrare in una sfera diversa, più ampia e, vorrei dire, cordiale e duratura, senza paludamenti né fasti della durata di un mattino: o, più semplicemente, nel nostro tempo.
Provo a spiegare l’importanza di questa doppia operazione partendo da un punto di vista personale e generazionale; senza la pretesa, con ciò (e s’intende!) di esaurirne i significati. Per chi negli anni Settanta iniziava a occuparsi di poesia del Novecento, era quasi inevitabile, nel caso di Campana, esser posti dinanzi a un bivio, riassumibile in questa secca e un po’ minatoria domanda: era la sua poesia l’ultimo frutto dell’Ottocento, o l’inizio del Novecento?
La questione presupponeva un’impostazione di tipo “scolastico” e pertanto schematica, nondimeno tale era la disputa – o querelle o meglio ancora diatriba – sottesa a larga parte della critica, implicando una distinzione e un’attribuzione di campo – Modernità o Tradizione? Carducci o Rimbaud?, e via alternando – a partire dagli elementi stilistici, lessicali e ideologici caratterizzanti il libro del ’14, accentuati e interpretati secondo prospettive diverse.
La lunga diatriba rifletteva, in sostanza, atteggiamenti divergenti nei confronti della poesia moderna, e in parallelo differenti interpretazioni della tradizione letteraria e del concetto di “avanguardia”: qualcosa, insomma, che di questi tempi non solo non è all’ordine del giorno, ma non ha proprio ragione di esistere, visto che ogni minimo o massimo ha i suoi accreditati esegeti ed essendosi moltiplicati a dismisura i loculi del Pantheon poetico. Oggi ognuno è inizio e fine, avanguardia e norma, antesignano ed epigono di se stesso; ma se prendiamo due antologie di particolare rilievo pubblicate nel decennio che parte dal ’68, Poesia del Novecento curata nel ’69 da Edoardo Sanguineti per Einaudi, e Poeti italiani del Novecento di Pier Vincenzo Mengaldo del 1978 (Mondadori), entrambe riproposte in numerose edizioni fino ad oggi, possiamo facilmente misurare la netta divaricazione dei giudizi su Campana, e la diversa collocazione attribuita agli Orfici. L’uno, Sanguineti, rivendicava a Campana l’essere «autentico protagonista», tra i «pochi davvero grandi del nostro Novecento», per la «tensione espressionistica» che in lui trovava il rappresentante più conseguente;2 l’altro, Mengaldo, concludeva il suo discorso sul poeta citando Debussy su Wagner: «un tramonto che poté sembrare un’alba».3
Si noti che non si trattava di giudizi sommari, come potrebbe sembrare a chi si limitasse a queste citazioni, bensì di interpretazioni articolate che avevano il loro luogo entro l’ampio orizzonte preso in esame dalle antologie; e tuttavia nel loro contrapporsi a distanza, esse neppure esaurivano l’ambito delle interpretazioni dell’opera di Campana, tutt’altro: essendo quest’ultima, in effetti, una cartina di tornasole per la critica di quegli anni. Franco Fortini, per esempio, in I poeti del Novecento (19771) operava una netta distinzione tra la cultura di Campana e gli esiti della sua poesia, con una mossa tale da spiacere sia ai detrattori, sia agli ammiratori del poeta. Per Fortini, da una parte l’autore dei Canti rappresentava «un tipo umano cui la presenza storica dell’anarchismo e di alcune sue varianti nazionaliste e prefasciste dava rilievo culturale, armandolo di parola poetica»; tipo umano, aggiungeva, in cui si configurava «la risposta che in Europa i ceti dell’individualismo artigiano democratico e libertario davano all’imperialismo industriale e colonialista che li veniva distruggendo».4 Dall’altra, c’era a suo giudizio «l’autentico poeta», che «proprio dalla monotonia della propria articolazione espressiva riuscì ad alcune immagini fortissime di purezza, annientamento e catastrofe».5
In Fortini è il rifiuto della “leggenda Campana” e della sua poetica, se intesa come «via alla rivolta allucinatoria» e come «decollo verso l’assoluto»; nonché del mito del «sublime selvaggio eversore», e infine e soprattutto, coerentemente con le sue premesse di critico e poeta, una lettura dell’orfismo come regressione «verso un’idea di poesia come forma del magico, vulgata ormai dall’industria della manipolazione (specializzata in false chiavi di accesso a un falso “diverso” fabbricato dal potere»).6
Il quadro non sarebbe davvero completo, però, se dimenticassimo di dire che sempre nel giro di quegli anni (precisamente del 1982), c’è un’altra interpretazione con cui fare i conti, ed è forse quella che più contava per i giovani che non si limitavano a seguire le dispute letterarie, e cercavano riscontri più ampi alle richieste di cambiamento che si esprimevano nella società (per cui a Campana si poteva arrivare via Bob Dylan o Allen Ginsberg, per capirsi: e perché no?) A istanze di questo genere, talora magari non senza velleità di “decollo” – per riprendere i termini di Fortini -, ma di sapore liberatorio rispetto alle gabbie critiche di uso corrente, rispondeva la lettura degli Orfici fornita quell’anno da Carmelo Bene, la prima volta al “Palazzo dello sport” di Milano (con l’accompagnamento di Flavio Cucchi alla chitarra classica), a suo modo un passaggio decisivo nella storia novecentesca del poeta di Marradi.
Per chi non poté, all’epoca, assistere all’evento, o meglio al “concerto” (definizione di Bene), da tutti ritenuto memorabile, ci sono su “YouTube” alcune letture dell’attore, e il cd allegato all’edizione Bompiani del ’997 del libro, che sebbene appartengano a uno stadio ulteriore rispetto alla prima esecuzione (la registrazione Rai è del ’96), riescono comunque a far intendere il carattere di “tour de force” dell’esecuzione di Bene, tale da confermare senz’altro, nel nostro caso, quanto osservava Piergiorgio Giacché, ovvero che «mai l’attore Bene s’è perso nella garbata sudditanza liturgica al testo, ma ha sempre seguito la via di una rivitalizzazione sacrale del suo senso e suono, inseguendo e realizzando spesso una sorta di resurrezione scenica del poeta o almeno di quanto della sua persona è rimasto inscritto nei suoi versi».8
Resurrezione, una parola non senza enfasi ma in fondo appropriata alla storia della poesia di Campana. E proprio nel suo uscire dai circuiti accademici e da schemi più o meno apertamente normativi, portando i Canti per così dire all’aperto e in dialogo con nuovi interlocutori, si può cogliere l’aspetto più dirompente dell’operazione compiuta da Carmelo Bene, quasi una rivincita e un risarcimento del destino ingrato del poeta, il quale veniva a situarsi, d’un tratto, in compagnia di Hölderlin e Majakovskij – e tanti saluti per florilegi e querelles, Papini e Soffici, Carducci e Rimbaud, Debussy e Wagner. Non solo una rivisitazione, quindi, quella di Bene, ma un’appropriazione e insieme una rivelazione, tanto più incisive in quanto tutte affidate alla voce, trasformate in evento o gesto vocale, in lezione vivente. Ebbene, mettendo da parte il background teorico della performance di Bene (che non è, a distanza, l’aspetto più significativo del suo apporto), certamente non si può non farne un riferimento obbligato; ma per l’appunto, quanto alla linea interpretativa che emerge dalla lettura di Claudio Morganti, lo stacco rispetto all’ingombrante e fascinoso, esplosivo precedente è molto sensibile. Siamo entro un’altra dimensione: smorzando ogni enfasi e puntando sul ritmo interiore dei testi, Morganti apre una strada tanto inedita quanto affascinante all’incontro con il poeta, una strada che sembra in primo luogo privilegiare la “prosa”, intesa in senso lato e non solo come genere, ovvero come continuità e orizzontalità rispetto allo scatto lirico, verticale, “assoluto”.
Diversa è anche, pertanto, la disposizione all’ascolto che ci chiede la voce di Morganti, mentre percorre il libro dei Canti: una sperimentazione in fieri, si potrebbe dire, del divenire della poesia come luogo di una comunione tra testo e lettore e tra lettore e ascoltatore, tale da richiedere un’attenzione e uno spazio suoi propri, quasi un a parte. Una esperienza, insomma, da cui si esce rafforzati nella percezione del carattere rabdomantico della scrittura di Campana, come se la «musica sconvolta» di cui parlò una volta (anche lui in chiave generazionale) Vittorio Sereni9 per i Canti fosse meglio trasmessa per vie intime e traverse, in aderenza alla musica del testo, meglio che riecheggiandone e sottolineandone i toni esclamativi, allo stesso tempo lasciando affiorare dal sostrato narrativo dei Canti (che è bene ricordarlo, in larga parte sono composti di prose) quelle immagini di «purezza, annientamento e catastrofe» ravvisate da Fortini.
Del proprio incontro e del «rapporto estremamente privato» con Campana, nella breve nota del libretto del centenario, così scrive Morganti: «Una maratona, una corsa, una fuga. Una fuga dalle “maniere” sempre in agguato e forse da Campana stesso, che mentre leggi, come fiera, pare volerti sbranare. Poterlo guardare, anche solo un istante, con la coda dell’occhio volgendo un po’ la testa mentre fuggi… ma conviene guardare avanti e correre.»
È questo il modo paradossale, obliquo ma intenso, intimo e straniante, con cui dopo un secolo Dino Campana torna oggi a parlarci, sempre in fuga ma senza più leggenda. Così, alla lunga, il suo libro si riapre per chi, semplicemente, voglia mettersi a tu per tu con la poesia, con la sua “astanza”, il suo ritmo materiale e vocale. Ancora Sereni mi pare abbia colto nel segno quando scriveva della musica di Campana e della sua scoperta, fatta in gioventù: «Tra sincopi di senso, frasi monche o precarie a coprire dei vuoti, tra blocchi interi di verseggiatura anche frusta o di sintassi straziata, tra sospensioni e riprese di motivi avvoltolantisi su se stessi in insistenze ossessive all’orlo dell’indicibile, ascoltare era infine anche vedere».10 Ecco: a tale esperienza – ascoltare per vedere – è invitato il lettore/ascoltatore dei Canti, grazie al suo nuovo interprete, per uno di quei cortocircuiti che ci sorprendono nei momenti in cui siamo aperti alle richieste e alle proposte della poesia, consapevoli della sua precarietà ma anche del suo procedere ogni volta, nonostante tutto, verso nuovi incontri, verso inattese rivelazioni, verso agguati imprevisti e infiniti inseguimenti nel tempo.
Note
1 Intervento all’Istituto Orientale di Napoli, 30 maggio 2016. Una versione più ampia è apparsa sul «Ponte», 4, 2016.
2 Poesia del Novecento, a cura di E. Sanguineti, Torino, Einaudi, 1969, pp. XXX-XXXI.
3 Poeti italiani del Novecento, a cura di P.V. Mengaldo, Milano, Mondadori, 19781, pp. 279.
4 F. Fortini, I poeti del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1977, p. 23.
5 Ivi, p. 30.
6 Ivi, p. 29.
7 C. Bene, Variazioni per voce dai «Canti orfici» di Dino Campana, Milano, Inversi Bompiani, 1999.
8 P. Giacché, «L’indice dei libri del mese», 10, 1999.
9 V. Sereni, Come leggemmo Dino Campana [1982], in Poesie e prose, a cura di G. Raboni, con uno scritto di P.V. Mengaldo, Milano, Mondadori, 2013, p. 986.
10 Ibidem.