Guido Liguori – uno dei più noti e sinceri studiosi di Gramsci in Italia – torna ad affrontare i classici temi della riflessione gramsciana, attraverso delle riletture svolte all’insegna dei nuovi studi prodotti nell’ultimo decennio in Italia e nel mondo, e anche con un occhio rivolto alla situazione politica italiana, foriera di nuove declinazioni o, come piace spesso ripetere all’autore, di nuove traduzioni del pensiero gramsciano nella concreta realtà politica. Ci vuole capacità, ma anche coraggio, a discutere nuovamente di Gramsci in rapporto alla questione meridionale, al Machiavelli o alla democrazia dei Consigli, temi su cui la bibliografia d’ogni tipo è ormai, come suol dirsi, smisurata. Eppure, l’accessibilità del tono – che si direbbe “divulgativo” se con tale termine non si alludesse sovente a una qualche forma di reductio nell’ambito dello specialismo accademico – non pregiudica il tentativo, da parte dell’autore, di affrontare i massimi temi gramsciani in forme originali e rivisitate. Si presentano, questi nuovi sentieri gramsciani, come uno strumento soprattutto utile: a capire meglio Gramsci, e attraverso di esso a capire meglio le convulsioni del movimento operaio, i suoi dilemmi, la sua storia.
Impossibile dare pieno conto dei molteplici temi che Liguori affronta o anche solo suscita nel corpo a corpo con gli scritti gramsciani. Alcuni di questi, però, si prestano meglio di altri a delle riflessioni intrise d’attualità. Intanto, la formazione intellettuale e politica del giovane Gramsci. Come noto, il Gramsci fino ai ventisei-ventisette anni (fino dunque al 1917-1918) fu profondamente influenzato dalle correnti neoidealiste e anti-positiviste che si diffusero anche nel marxismo in seguito alla disfatta della Seconda internazionale. La fuoriuscita dal determinismo kautskiano fu un evento che incise nel rapporto tra movimento operaio e pensiero marxiano-engelsiano, che di quel determinismo fu legittimo referente. Vi era, in accordo coi tempi e con le correnti più vivaci del pensiero borghese della crisi, una complessiva rivalutazione del soggetto, e il conseguente tentativo di comporre Marx con le filosofie innervate di vitalismo di vario grado. Il portato di questo processo – che contribuì in ogni caso ad arricchire l’azione del movimento operaio stesso – si tradusse in Gramsci in un precoce “ribellismo” alimentato dal pensiero di Bergson e Sorel, in parte di Croce ma soprattutto, diremmo, dell’attualismo gentiliano. Questo è il “brodo di cultura” di quella filosofia della praxis che diverrà uno dei perduranti segni distintivi del marxismo italiano, di quel marxismo cioè che Togliatti, nell’immediato secondo dopoguerra, costruirà attraverso il magistero e il prestigio di Gramsci. Il modo in cui Liguori discute di questa fonte politico-culturale, le strade attraverso cui Gramsci supererà – o almeno ridurrà di portata – il suo soggettivismo, descrivono quell’educazione alla politica che ogni rivoluzionario è tenuto a compiere nel suo rapporto con l’azione. Fondamentale, in Gramsci, sarà l’incontro con la rivoluzione d’ottobre, con il pensiero di Marx e con quello di Lenin – straordinario interprete della dialettica tra possibilità e necessità dell’azione politica.
È nell’incontro tra l’esperienza del “biennio rosso”, le controversie dell’edificazione socialista in Russia, i fallimenti rivoluzionari in Germania e l’avvento del fascismo, che in Gramsci inizia a maturare quella «rivoluzione del concetto di rivoluzione» che si presenta, in Liguori, come il più importante lascito gramsciano (almeno a giudicare dalla ricorsività del tema nei vari scritti e nel resto della sua produzione saggistica). È un tema classico dei Quaderni e non ribadiremo l’ovvio – ovvero il rapporto tra Stato e società civile che, in Occidente, impone (per Gramsci) un’azione politica qualitativamente diversa rispetto a quella sviluppatasi in Russia e più generalmente “in Oriente”. Quello che invece è possibile sottolineare, anche qui con un occhio rivolto alla dimensione storica delle vicende del movimento operaio connessa – e non scollegata – ai problemi dell’attualità, è l’idea della rivoluzione in Occidente come «processo» e non come atto-evento. È un’idea che si forma all’interno dei dibattiti in sede Comintern in riferimento alla rivoluzione in Germania, e che Gramsci sviluppa in relazione alla situazione italiana. I concetti di «egemonia» e di «guerra di posizione» sono espressione di questo dibattito. È un confronto empirico – non ci sono modelli da applicare – e dall’Internazionale comunista (e dallo stesso Lenin) arrivano spesso indicazioni divergenti. “Fare come in Russia” viene inteso sempre più nell’ottica dell’accumulazione di forze sui tempi medi, di una processualità che però non pregiudica il colpo rivoluzionario, qualora se ne presentassero le occasioni. È in questa dialettica che Gramsci si distanzia parzialmente da un certo “pensiero strategico cominternista” ma anche, lo rileva lo stesso Liguori nel saggio sul rapporto tra Gramsci e Rosa Luxemburg, tra Gramsci e le correnti critiche presenti nel movimento operaio (di matrice “ortodossa” o neokantiana). Non perché anche Luxemburg non avesse un’idea processuale della rivoluzione, ma perché è proprio a partire dal 1923-1924 che in Gramsci – sulla scorta di queste riflessioni e guardando sempre al contesto italiano – assume un valore centrale la formazione dell’ideologia nel rapporto tra classe dominante e classi/ceti subalterni. È in questo torno di tempo che la dimensione culturale – intesa quale cintura di collegamento tra potere e società civile – un collegamento che stabilisce i legami di dipendenza e quindi di sottomissione, assurge a battaglia fondamentale del partito in lotta per l’egemonia politica nel paese. La società civile, come dirà Gramsci nei Quaderni e come giustamente riporta Liguori, «è diventata una struttura molto complessa e resistente alle “irruzioni” catastrofiche dell’elemento economico immediato (crisi, depressioni ecc.): le superstrutture della società civile sono come il sistema delle trincee nella guerra moderna» (cfr. p. 152). È sui vincoli ideologici di tale dipendenza che bisogna intervenire, e per farlo occorre l’elaborazione di un “pensiero strategico” che dia centralità alla dimensione culturale. Qui si situano gli altri due celebri temi gramsciani: la questione contadina e quella degli intellettuali, due vicende tra loro intimamente legate.
La questione meridionale diverrà, a partire dalle Tesi di Lione del 1926 – quel III Congresso che formalizzerà il passaggio di testimone dal gruppo dirigente bordighiano a quello gramsciano-togliattiano – una delle tematiche centrali del partito, se non il vero e proprio punto qualificante dell’azione politica del Pcd’I e soprattutto poi del Pci nella Repubblica. Vi è in questa fase una transizione politica decisiva per il comunismo italiano: da partito rigidamente classista, e quindi localizzato geograficamente (ma anche tematicamente) nel settentrione e nelle sue fabbriche, a partito nazionale e delle classi popolari del paese. La transizione è, anche qui, “processuale” (si dispiegherà più compiutamente nella Resistenza e negli anni successivi alla Liberazione), ma nel pensiero gramsciano è già definita con precisione nei Quaderni: la disgregazione sociale che aveva frenato la modernità industriale e condotto poi alla reazione fascista, è il portato di una contrapposizione, anche territoriale, tra due società – quella sviluppata del nord e quella arretrata del sud – incapaci di sostenere la formazione di una classe politica democratica in grado di dirigere lo sviluppo storico nei termini del progresso borghese. L’origine del problema risiede, per Gramsci, nel blocco sociale composto, nel Meridione, da grande proprietà fondiaria e massa contadina, materialmente divergenti ma ideologicamente compattati dall’azione della piccola borghesia intellettuale manovrata dalla grande intellettualità liberale (dei Croce e dei Fortunato). «Il contadino meridionale era così legato al grande proprietario terriero per il tramite dell’intellettuale», dirà Gramsci (p. 225). È qui che gli intellettuali, gli «intellettuali come massa», divengono “questione intellettuale”, al cuore dell’azione politica comunista e della sua politica culturale nel secondo Novecento. Determinare, cioè, una frattura, che distacchi porzioni di ceto intellettuale (ovvero di piccola borghesia) dal sistema ideologico dominante, stabilire alleanze in grado di dare valore e prestigio all’intellettuale in rapporto alle classi lavoratrici. Che possa cioè favorire quell’autonomia culturale e poi anche politica “dei subalterni”, fino ad allora dipendenti dal sistema di valori generato all’interno delle classi dominanti. È una politica delle alleanze e un esercizio di egemonia, quello che prospetta Gramsci.
Lo sviluppo di questa tematica stabilirà un punto di contatto, nei decenni successivi, tra la riflessione gramsciana e quella degli studi post-coloniali. È quanto Liguori ripercorre nel capitolo sulla «concezione dei subalterni in Gramsci», anche questo argomento molto diffuso (e molto di moda) negli studi gramsciani nel mondo, ma sempre più all’ordine del giorno dato il protagonismo anti-occidentale degli Stati ex-colonizzati. La dimensione della sottomissione culturale e della dipendenza ideologica, prima ancora che economica, nei rapporti tra nord e sud del mondo, è al centro delle diverse interpretazioni del fenomeno coloniale e post-coloniale. Qui Liguori insiste sulla subalternità, una concezione che arricchisce la tradizionale classificazione sociale marxista (dicotomica tra borghesia e proletariato), ma che al contempo sfuma i rigidi (o pretesi) criteri oggettivi su cui questa veniva fondata. Le «classi subalterne» sono varie, non incastonate chiaramente nei rapporti di produzione, se non in senso lato, e accomunate dal fatto di «non essere egemoni» (p. 237). In Gramsci permane una relazione (gerarchica) tra le diverse dimensioni dello sfruttamento, ma Liguori riconosce che nello stesso Gramsci è presente la «possibilità di dilatazione del termine subalterno» (p. 241), cosa avvenuta appunto nel rapporto con la vicenda post-coloniale e nei relativi studi (anzi: studies). Il problema, per Gramsci, era di ricavare un modello storico (se non teorico) in cui incardinare l’esigenza politica di favorire una politica di alleanze con soggetti sociali più estesi e complessi del solo proletariato industriale, classe egemone ma minoritaria nel paese, incapace cioè di esercitare fattivamente questa egemonia se contrapposta all’insieme della società italiana del tempo. Come sempre – Liguori fa bene a ricordarlo rispetto a chi vorrebbe fare di Gramsci uno “scienziato della politica” – il rivoluzionario sardo era in primo luogo «un combattente» (p. 157), che ragionava e scriveva in rapporto alle urgenze della lotta politica. Semmai, la sua “grandezza” risiede proprio nella sua capacità di unificare il momento dell’analisi strumentale e contingente a quello della profondità storica, che poi è il motivo della persistenza di Gramsci a livello politico e accademico.
Molti altri sono i temi affrontati da Liguori e meritevoli di un qualche commento: dal «disastro» di Livorno al confronto più maturo con Machiavelli. Il capitolo conclusivo, centrato sulla «dialettica tra masse e partito», appare anche quello in cui Liguori più direttamente (anche se non esplicitamente) fa i conti con i problemi politici della contemporaneità. Emerge un Gramsci non populista, a dispetto di chi vorrebbe usarlo per uniformare ingegneristicamente l’inafferrabile categoria di “popolo”. Ma emerge anche l’istanza di attenzione rivolta a tutti quei fermenti spontanei che le società complesse costantemente riproducono ma incapaci di addivenire a una qualche forma di coscienza compiuta proprio perché frammentati al proprio interno (si direbbe un Gramsci non populista ma non anti-populista). I movimenti spontanei da soli non bastano, ma è insufficiente anche una direzione politica che non prenda le mosse da questi, che non ne decifri le ragioni materiali alla radice e sappia declinarli in proposta politica egemonica (cfr. p. 284). In ultima istanza, quella che Liguori propone è una diversa qualità del rapporto tra “partito e masse”, da pensare nei termini nuovi dati dalle circostanze ma che, proprio per poter essere pensati compiutamente, questi rapporti potrebbero intrecciarsi con le riflessioni gramsciane che anche su questo, e proprio per questo, mantengono una determinata freschezza.