Guido Cusinato,
Vuoto aurorale
Isabella Adinolfi

Guido Cusinato, Vuoto aurorale, Genova, il melangolo, 2025.

Il vuoto aurorale è uno spazio non saturo, come può esserlo il deserto descritto dai mistici e dagli eremiti; uno spazio aperto che annuncia, come l’aurora, la nascita di qualcosa che ancora non c’è. Per questo il vuoto aurorale è anche un vuoto carico di promesse, un “vuoto promettente”: chiede di non essere riempito, con la tacita promessa di accogliere una dimensione della realtà altrimenti inaccessibile. Ed è grazie ad esso che diventano visibili i fragili filamenti con cui il mondo dei fenomeni s’irradia nel regno impercettibile allo sguardo oggettivante.

Guido Cusinato, Vuoto aurorale

Ogni volta che mi accosto a un problema filosofico, muovo sempre da me stessa e dalla mia esperienza personale. Se manca questo punto di partenza, il senso delle cose mi sfugge e ciò che leggo o analizzo resta distante, quasi indifferente. Ho imparato questo approccio dai miei primi maestri: Blaise Pascal e Søren Kierkegaard. Nei Pensieri, Pascal si concentra unicamente su quei problemi esistenziali che – per usare le sue parole – «ci toccano, ci afferrano alla gola», e di cui afferma: «si tratta di noi stessi e del nostro tutto».1 Kierkegaard, già da giovane studente universitario, appuntava nel Diario di non essere alla ricerca di una verità astratta, «fredda e nuda», a lui «indifferente», ma di una verità che avesse significato per la sua vita, «per la quale voler vivere e morire».2

Dello stesso avviso era anche Arthur Schopenhauer che, in Parerga e Paralipomena, afferma: «Le persone che hanno passato la vita leggendo e hanno attinto la loro sapienza dai libri somigliano a coloro che, da un gran numero di descrizioni di viaggi, hanno acquistato la conoscenza precisa di un paese».3 E ancora: «Vi sono due tipi di scrittori: coloro che scrivono per amore della cosa, e coloro che scrivono per scrivere. I primi hanno avuto idee oppure esperienze che sembrano loro degne di essere comunicate; i secondi […] scrivono per riempire la carta […]. Appena ce ne accorgiamo, dobbiamo buttar via il libro: il tempo è prezioso».4

Traggo queste due ultime citazioni dall’ultimo libro di Guido Cusinato, che pur sviluppando con rigore teoretico il concetto di «vuoto aurorale» come origine della filosofia e fondamento dell’esistenza umana, lo fa a partire da una prospettiva vissuta, radicata nella sua esperienza personale. È questo, almeno per me, il primo merito del libro, che auspico possa raggiungere molti lettori, perché offre strumenti preziosi per attraversare quei momenti in cui tutto sembra vacillare, in cui sentiamo mancarci la terra sotto ai piedi.

Ma partiamo dal dipinto scelto per la copertina: Study of Cirrus Clouds (1822) di John Constable. L’artista romantico inglese era affascinato dalla natura e, in particolare, dal cielo, che divenne uno dei soggetti privilegiati della sua pittura. In quest’opera, così come in Brighton Beach del 1824, lo sguardo dello spettatore è naturalmente attratto dalla trama delle nubi alte, fluttuanti, in continuo movimento nella volta celeste, che si distendono e si dissolvono, generando un senso di profondità e di dinamismo che pare espandersi oltre i confini del quadro.

Constable era famoso per annotare con estrema precisione il luogo e l’ora in cui realizzava i suoi studi. Non so se, in questo caso, stia dipingendo proprio il vuoto aurorale, quel momento sospeso tra la notte e il giorno, quando il buio si ritira lasciando spazio alla luce. Ma mi piace immaginare sia proprio così. Il blu profondo e intenso della parte superiore del dipinto si dissolve gradualmente in tonalità sempre più chiare, fino a diventare quasi bianco in prossimità del luogo da cui sorge il sole – un effetto che fa pensare a un’alba imminente. Il vuoto aurorale, come spiega Cusinato nel libro, è infatti un vuoto «promettente», un’oscurità gravida di luce, che preannuncia una nascita.

È dall’esperienza – dall’accettazione, assunzione e ascolto – di questo vuoto, che nasce la filosofia, o meglio che può nascere il filosofo. L’origine della filosofia non è infatti solo un evento storico, bensì un gesto «originario», che non rimane confinato agli albori della coscienza umana, non si esaurisce nella storia della filosofia, ma si rigenera in ogni essere umano che si pone il problema di dare una forma alla propria esistenza, rinnovandosi ogni volta in ciascun individuo che sceglie di interrogarsi e tentare di comprendere quanto è emerso nella propria esperienza e che conseguenze abbia avuto su di lui.

Un gesto, questo, che si rifà al movimento periagogico del prigioniero nella caverna di Platone,5 al momento in cui questi si gira, distogliendo lo sguardo dalle ombre per rivolgerlo verso la luce, il sole del Bene. Per Cusinato, questo gesto corrisponde a un’esperienza giovanile di crisi, un passaggio esistenziale che definisce «vuoto promettente» o «vuoto aurorale». Non si tratta – spiega – di una semplice mancanza da colmare, ma dell’esito di un evento traumatico che, se assunto e vissuto, ridimensiona, spazzandolo via, tutto ciò che è secondario o superfluo, aprendo così uno spazio interiore in cui può emergere qualcosa di nuovo, di essenziale, di autentico. Si tratta, insomma, di una sorta di risveglio. In termini religiosi parleremmo di conversio.

Ma da cosa nasce quel senso di disgusto della vita, che, a un certo punto del nostro percorso esistenziale, può afferrarci mettendoci in crisi? Da cosa nasce la nausea?

Cusinato parla di inquietudine del cuore, una tensione, una fame, che cerchiamo di colmare, spinti dalla società in cui viviamo, con il fare frenetico, con dei beni di cui non abbiamo bisogno, e poi soprattutto con il riconoscimento sociale. Quella fame invece è fame di nascere. È la «singolarità personale» che vuole formarsi a partire dall’informe. Essa preme dentro di noi per venire alla luce e non essere soffocata, prima di nascere, dal «piccolo sé», centrato solo su stesso, egoista. Io sono – scrive Cusinato – la mia fame di nascere:

Se la fame dello stomaco e le brame del piccolo sé seguono la logica dell’horror vacui, la fame di nascere ha orrore della saturazione e della pienezza. Non chiede d’ingoiare e riempirsi o d’inglobare e assimilare, bensì di rimanere aperta per poter accogliere e generare. L’appagamento di tutti i bisogni fisiologici e psicologici, e di tutte le brame di riconoscimento, non basterebbe a far cessare i suoi morsi, che anzi diventerebbero sempre più dolorosi. Il cibo che sazia il piccolo sé non può sostituire quello che nutre la fame di nascere e, a lungo andare, finisce con il nauseare la singolarità personale. Cercare di appagare l’inquietudine del cuore, attraverso la logica del riempimento, significherebbe ricadere in qualcosa di simile al supplizio di Sisifo. È un circolo vizioso che riporta sempre al punto di partenza, in quanto la saturazione in termini di riempimento, fagocitazione, possesso, distrazione non è in grado di appagare la fame di nascere, ma ha solo il risultato di rendere sempre più insopportabile il vuoto esistenziale che mi attanaglia. (p. 20)

Mentre il «piccolo sé» si forma attraverso la lotta per il riconoscimento sociale e l’inseguimento di modelli di successo, la «singolarità personale», al contrario, emerge da un processo di svuotamento, spesso innescato da una crisi. Mentre l’angoscia del piccolo sé spinge a imitare gli altri, l’inquietudine del cuore preme per trovare uno spazio in cui proseguire la propria nascita. Quando si esperiscono i limiti del piccolo sé, si è motivati a compiere il passaggio verso la singolarità personale, un atto di auto-trascendimento. Questo percorso espressivo non è una sostanza o un’identità continua, ma l’unicità di un percorso di superamento del piccolo sé, un personal non-self, lo definisce Cusinato, che si riconnette al mondo.

L’inquietudine del cuore è dunque la percezione di uno «spazio» ulteriore che si estende oltre i confini del «piccolo sé» (la parte dell’anima che si identifica con l’io). È un vuoto che la logica del fare non può riempire. Questa inquietudine segnala che l’esistenza umana è un processo ininterrotto di nascita. L’uomo è «venuto al mondo senza aver finito di nascere» e l’inquietudine del cuore lo spinge a proseguire questa nascita, superando i limiti autoreferenziali del piccolo sé.

Pertanto, il vuoto del cuore è aurorale perché annuncia qualcosa che non è ancora nato. È un’apertura, un varco, uno spazio non saturo che richiede un atto sacrificale di distacco dal proprio sé egotico per manifestarsi. Il vuoto aurorale è un’apertura che, se non ostruita, accoglie una dimensione della realtà altrimenti inaccessibile. È quel vuoto che consente il manifestarsi di una presenza che altrimenti non potrebbe manifestarsi. Non è la singolarità a controllare il vuoto aurorale, ma è la singolarità stessa a prendere forma grazie ad esso, diventandone la custode della generatività, come precisa Cusinato:

Il piccolo sé vive l’esistenza come un “vuoto” da riempire attraverso la lotta per il riconoscimento sociale. Questa è caratterizzata da un’ansia da prestazione, che spesso mi pone di fronte al dilemma se compiacere gli altri o seguire i miei desideri. Diversa è la prospettiva del vuoto aurorale. In tale vuoto è assente la logica di appropriarsi di qualcosa che c’è già, per fagocitarlo: è aurorale perché non denuncia una mancanza ma, al contrario, annuncia la nascita di qualcosa che ancora non esiste. […] È un vuoto, ma solo nel senso in cui può esserlo un’apertura. Propriamente si tratta di un “vuoto” che permette il passaggio di qualcosa che altrimenti non potrebbe manifestarsi […]. Riempire questi “vuoti” equivarrebbe a ostruire un’apertura. (p. 21)

Al fondo di questa visione antropologica si staglia, potremmo dire, la figura dell’«uomo camaleonte» delineata da Pico della Mirandola: creatura senza forma prestabilita, faber sui, libera nel volere e ponte tra l’animale e il divino. Cusinato, tuttavia, non si rifà al De dignitate hominis – sul quale Pier Cesare Bori ha scritto pagine memorabili, alle quali mi permetto di rinviare il lettore – e per illustrare la natura «proteiforme» dell’umano orienta la propria riflessione verso teorie e prospettive più attuali, attingendo a studi di antropologia, sociologia ed etologia. Si avvale, ad esempio, degli studi di Konrad Lorenz per sostenere la tesi dell’umano come «animale ex-centrico». A differenza dell’oca selvatica, che riceve alla nascita un imprinting in grado di guidarne l’esistenza lungo un tracciato già segnato, l’uomo deve imparare – secondo le parole di Pavese – il difficile «mestiere di vivere». E, proprio per questo, a differenza delle farfalle, ha bisogno della filosofia.

L’oca selvatica viene al mondo e acquisisce in poche ore le informazioni sufficienti per imparare a vivere. Non ha pertanto bisogno di porsi il problema di come dare una forma alla propria esistenza: tale forma è già lì, a portata di “zampa”. Né può stupirsi della propria esistenza. Certo, le farfalle e le oche si dovranno confrontare con la lotta per la sopravvivenza, ma non con la fatica di vivere di Cesare Pavese. (p. 33)

Come «animale ex-centrico», non possedendo una forma esistenziale già data, l’essere umano la costruisce, mosso dal desiderio. Per Cusinato, questo continuo generare e dar forma a se stesso non è un cambiamento imposto dagli dèi o dal destino. Derivando da de-sidera, etimologicamente «contro le stelle», il desiderio è inteso come un rifiuto di ciò che è già scritto, un’eccedenza che spinge a creare qualcosa di nuovo. Non ha a che fare con il bisogno di riconoscimento sociale, che porta all’alienazione, ma è un’esperienza che emerge dalla cura dell’anima e dalla singolarità personale.

Tuttavia – si badi – questa esperienza di trasformazione di sé non è neppure l’atto autopoietico di un sé autonomo, solitario, solo. L’essere umano è originariamente in relazione con altri sé e con il mondo, come ha spiegato l’esistenzialismo da Max Scheler in poi. Non nasce con una forma esistenziale compiuta, ma la assume attraverso l’esperienza e le relazioni sociali. Cusinato insiste molto sul carattere intrinsecamente relazionale e sociale del sé. L’esperienza dell’incontro con l’altro è vista pertanto come una novità che feconda e trasforma, permettendo la continuazione della nascita.

Ora il desiderio è sempre desiderio d’altro. Anche quello della «persona singolare» è sempre rivolto all’altro, ma non cerca nell’altro una mera conferma del proprio essere, bensì un’uscita da sé per rinascere nell’incontro. L’amore vero sposta il baricentro del desiderio e del proprio essere dall’io, dal sé piccolo, all’altro. L’altro non è desiderato per farne «trofei» – simboli del proprio successo, come accade nel caso del piccolo sé –, ma per la sua esemplarità, ovvero l’energia che emana da chi ha superato il proprio piccolo ego. Il rapporto tra persone singolari non è una relazione di dominio, ma di reciproco riconoscimento.

In Vuoto aurorale un ampio rilievo è accordato agli «esercizi spirituali», pratiche di purificazione, svuotamento, attenzione. Riprendendo il pensiero di Pierre Hadot, Cusinato sostiene, a ragione, che il discorso filosofico moderno abbia tradito l’eredità della filosofia antica, la quale era concepita come un vero e proprio «esercizio di cura dell’anima».

Mi soffermerò, in questa recensione, sull’esercizio dell’attenzione, intesa come la facoltà capace di farci percepire la bellezza e la verità e di indirizzarci verso azioni giuste. È impressionante notare come, riguardo all’attenzione che definisce aurorale, Cusinato giunga autonomamente, per proprio conto, alle stesse conclusioni di Simone Weil. La filosofa francese non è mai citata, e tuttavia sembra che un’eco segreta attraversi entrambi i pensieri.6

Cusinato distingue tre forme di attenzione. Vi è anzitutto quella volontaria, un atto intenzionale che concentra lo sguardo e lo sforzo su un oggetto o su un compito preciso. Vi è poi l’attenzione involontaria, passiva e indifesa, che si lascia catturare dagli stimoli esterni, trascinata senza filtro né attesa, esposta al fascino di ciò che seduce o alla ferita di ciò che colpisce. Infine, l’attenzione «aurorale», che non è né il gesto mirato della volontaria, né l’abbandono inconsapevole dell’involontaria, ma piuttosto una vigilanza distesa e silenziosa, resa possibile da un esercizio di alleggerimento della volontà del «piccolo sé» e di svuotamento dalle distrazioni e dal rumore interiore.

Questa forma di attenzione è per Cusinato, come anche per Weil, uno «sforzo negativo», un esercizio del «non» (non volere, non cercare, non interrogare…),7 che comporta il distacco da noi stessi, sospendendo pensieri, preoccupazioni, ambizioni e desideri del piccolo sé. E, come Weil, anche Cusinato non la considera soltanto un atto intellettuale o cognitivo, ma ne mette in luce il valore morale, intendendo l’attenzione come la capacità di aprirsi ad altro e all’altro, di vederlo, ascoltarlo, comprenderlo davvero.

In questo stato di «vuoto», diventiamo infatti capaci di accogliere davvero ciò che vogliamo comprendere. L’attenzione è attesa, scrive ripetutamente Weil (le due parole hanno infatti la medesima radice). Solo nel vuoto e nell’attesa è possibile il manifestarsi della presenza di qualcos’altro. L’attenzione si manifesta allora anche come una profonda capacità di ascolto, che apre la strada a un amore autentico per il prossimo. La pienezza dell’amore, affermava Weil, sta semplicemente nella capacità di chiedere all’altro: «Qual è il tuo tormento?».

Nella prima leggenda del Graal si dice che il Graal […] apparterrà a colui che per primo domanderà al custode della pietra, il re per tre quarti paralizzato dalla più dolorosa delle ferite: “Qual è il tuo tormento”. […]

La pienezza dell’amore per il prossimo è semplicemente la capacità di domandargli: “Qual è il tuo tormento”. […] Per questo motivo saper posare su di lui un certo sguardo è sufficiente, ma indispensabile. Uno sguardo che prima di ogni cosa è uno sguardo attento, con il quale l’anima si svuota completamente del proprio contenuto per accogliere in sé l’essere che sta guardando così com’è, in tutta la sua verità. Di un simile sguardo è capace solo colui che sa prestare attenzione.8

Prestare attenzione, in questo senso, è tutt’altro che semplice. Per vedere altro/l’altro, è necessario distogliere lo sguardo da se stessi, decentrare il proprio io, riorientare il desiderio. Weil scrive che è necessario «de-crearsi», intendendo con ciò il superamento del proprio «naturale» egoismo ed egocentrismo, cioè quell’eccessivo amore per se stessi (φιλαυτία), che, ci ricorda Cusinato, già per Platone costituiva l’errore più grande e l’origine di tutti i mali (Leggi, V, 731d-e).

Significativamente, il libro si chiude con una riflessione sull’arte del kintsugi, quale metafora di rinascita. Il kintsugi, letteralmente ‘riparazione con l’oro’, è un’antica arte giapponese che consiste nel riparare oggetti in ceramica rotti utilizzando una lacca mescolata con metalli preziosi. Questa tecnica non nasconde le fratture, ma le esalta, le evidenzia, rendendole parte integrante dell’oggetto. Grazie alle sue “cicatrici” dorate, l’oggetto riparato diventa più prezioso di quanto non fosse prima della rottura. Le cicatrici testimoniano della sua storia e della sua unicità.

Nel contesto del libro, il kintsugi funge da potente metafora per il processo di rinascita della singolarità personale dopo un trauma. Come il vaso riparato, la persona non si limita a tornare come prima, ma rinasce in una nuova forma, arricchita dalla memoria del trauma superato e dalla forza delle relazioni di cura che l’hanno sostenuta. Allo stesso modo i tagli nei quadri di Lucio Fontana, vere e proprie ferite impresse nelle tele, conferiscono loro la dimensione della profondità, così come le nostre ferite, segnandoci, ci aprono al mondo:

Le vicissitudini della vita, con i suoi imprevisti, le sue battute d’arresto, le delusioni e le sofferenze, inevitabilmente segnano profondamente ogni persona. Nessuno ne esce indenne, tutti subiscono delle “fratture” interiori. Ma chi è in grado di metabolizzare queste ferite, di imparare da esse e di trasformarsi, esce da queste esperienze più consapevole proprio nei punti in cui era stato “spezzato”. Talvolta, infatti, l’azione distruttiva del trauma apre un varco aurorale nel sistema immunitario del proprio piccolo sé. Ed è attraverso tale varco aurorale, che la singolarità personale sperimenta la propria incompiutezza, entra in contatto con la singolarità dell’altro e prosegue la sua nascita. […] Come i tagli di Fontana, anche le esperienze traumatiche possono lacerare la “superficie” dell’esistenza, aprendo varchi verso una dimensione più profonda. Più precisamente, la superficie compatta delle sue tele ricorda l’individuo unidimensionale prima dell’atto di auto-trascendimento, ovvero la dimensione ancora autoreferenziale del piccolo sé. Lo squarcio rappresenta invece la ferita, prodotta dall’esemplarità, che apre alla dimensione personale. (p. 174)

Dall’esperienza di una crisi giovanile, più volte rievocata dall’autore,9 prende forma la riflessione di Cusinato. Ne emerge un percorso nitido, esemplare: dapprima lo shock di un evento capace di scuotere le fondamenta della sua esistenza; poi il bisogno di sottrarsi alla frenesia quotidiana, scegliendo l’isolamento e il silenzio come spazio di meditazione. Nonostante l’angoscia, sostenuto dalla forza di volontà, l’esperimento è condotto fino al limite estremo, resistendo alla tentazione di interromperlo. Una volta superata questa soglia, la volontà si esaurisce, lasciando spazio a un’attenzione nuova e intensa per il semplice atto di esistere qui e ora. L’esperienza culmina infine in un senso di meraviglia tanto profondo da lasciare senza fiato. Alla riflessione su questa vertiginosa esperienza del thaumazein è dedicata una parte essenziale non solo del volume, ma dell’intera ricerca di questo autore penetrante e originale.

Come per le esperienze analoghe di Descartes e Spinoza, descritte nelle loro opere e riprese e commentate in Vuoto aurorale, anche in questo caso l’esperienza vissuta è stata un seme che, nutrito dalla meditazione, ha fatto germogliare il pensiero e modellato la personalità in una forma nuova.

Nel Discorso sul metodo, dopo aver narrato l’esperimento del dubbio radicale vissuto in solitudine in una stanzetta ben riscaldata, Descartes scriveva: «vorrei che i lettori non impiegassero solamente il poco tempo che occorre per leggerla, ma qualche mese o almeno qualche settimana a considerare le cose di cui essa tratta, prima di passare oltre». «Descartes – chiosa Cusinato – […] getta al lettore i semi della propria esperienza formativa, con l’invito a lasciarli germinare. Ma affinché possano germinare, le sue pagine vanno meditate» (p. 70).

Anche le pagine di questo libro, come quelle degli autori a cui viene dato rilievo, non vanno semplicemente lette, vanno fatte lievitare. Non si tratta di una mera trasmissione d’informazioni dottrinarie, ma di una comunicazione germinativa. Ovvero, come avrebbe detto Kierkegaard, di una «comunicazione di esistenza».

Note

1 B. Pascal, Frammenti, trad. it. di E. Balmas, Milano, Rizzoli, 1994. Questa traduzione italiana numera i frammenti seguendo l’ordine di ricorrenza e la numerazione dell’edizione delle Pensées curata da L. Lafuma. I frammenti citati sono il 633 e il 427.

2 S. Kierkegaard, Diario, trad. it. di C. Fabro, Brescia, Morcelliana, 2011, tomo I, p. 119, 1° agosto 1835.

3 A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, a cura di G. Colli e M. Carpitella, Milano, Adelphi, 1983, tomo II, § 262.

4 Ivi, § 272.

5 Sempre su questo tema, si veda G. Cusinato, Periagoge.Theory of Singularity and Philosophy as an Exercise
of Transformation
, eng. transl. by R. Shibuya and K. Whittle, Leiden Boston, Brill, 2023.

6 Forse l’eco del comune riferimento a tradizioni orientali e a Meister Eckhart.

7 «Gli esercizi di distensione sono esercizi del non volere, del non cercare, del non domandare. Esercizi del non progettare o prefigurare qualcosa. Qualcosa di nuovo può emergere dal vuoto aurorale solo se non è riconducibile al previsto, al noto, al già classificato. Altrimenti faccio esperienza solo di quello che sono e so già e non incontro mai qualcosa che è al di fuori della mia mappa mentale. Se sono concentrato nella ricerca di qualcosa, allora vedo solo ciò che cerco; incontro solo il riflesso di ciò che ho già anticipato» (pp. 97-98, corsivi miei).

8 S. Weil, Riflessione sul buon uso degli studi scolastici in vista dell’amore di Dio, in Ead., Attesa di Dio, trad. it. di M.C. Sala, Milano, Adelphi, 2009, p. 200.

9 Cfr. la registrazione della conferenza: La filosofia come esercizio di trasformazione e il vuoto aurorale.