Ad amici catanesi
Breve storia di una generazione attraverso due inediti fortiniani
Anna Carta
In che modo riconnettere l’episodio della conferenza che Fortini è invitato a tenere a Catania al quadro più generale del suo percorso intellettuale e specialmente al valore assunto nella sua biografia dall’anno 1964? Per Fortini, «quella società è ben ordinata (o è alla vigilia di una profonda rivoluzione) nella quale maestri veri e discepoli veri si cercano e si trovano a vicenda; ognuno, spesso, sotto la qualifica dell’altro»6. Ogni processo rivoluzionario non può essere scompagnato da un enorme dialogo ininterrotto, «in cui ognuno insegna ad ognuno e ognuno parla a tutti e tutti si impara da tutti».7 Questa la centralità, da un punto di vista gnoseologico ed etico, assunta all’interno del sistema di pensiero fortiniano dal dialogo e l’interlocuzione, dalla discorsività e la persuasione, qualità in cui Fortini faceva consistere l’intelligenza. Sono concetti tradotti in immagini e versi nella poesia Il bambino che gioca:
e parlò al vecchio come un amico.
Il vecchio lo udiva raccontare
Come una favola la sua vita.
Gli si facevano sicure e chiare
cose che mai aveva capite.
Prima lo prese paura poi calma.
Il bambino seguitava a parlare.
Le vicende biografiche che provarono duramente Fortini attorno al 1964 giocarono un proprio ruolo per la maturazione in lui di una determinata idea del rapporto discepolo-maestro. Nel corso di quell’anno si consumò un passaggio drammatico nella vita dello scrittore, più volte da lui rievocato e sempre con amarezza. È il momento in cui chiude i conti con tutta un’area intellettuale – i Solmi, i Panzieri – che aveva intrecciato le proprie vicende a quelle dei «Quaderni rossi», aveva capito di quali mutamenti in atto fossero stati espressione gli scioperi del 1962 a Torino, aveva sostenuto presso Einaudi la pubblicazione di un testo controverso come L’immigrazione meridionale a Torino di Goffredo Fofi. A quella frattura corrispose anche una brusca interruzione dei rapporti di collaborazione – prima molto prolifici – tra Fortini e i quotidiani nazionali e l’improvviso incombere di gravi difficoltà pratiche: «Nel 1964, a 47 anni, sono stato licenziato quasi contemporaneamente da Olivetti e da Einaudi. È stato un brusco declassamento […] feci la scuoletta a Lecco. Bene: se non avessi fatto quell’esperienza tremenda e positiva, non avrei capito nulla. Mi trovai a contatto di gomito con tanti giovani che si occultavano nell’insegnamento: era la generazione del ’68. Scoprii la bellezza di essere un intellettuale frate, non prete: fra Cristoforo, non Cardinale Borromeo».8 Tra il 1962 e il 1964, le difficoltà materiali e l’isolamento assoluto avevano creato per lui e per pochi altri intellettuali quella che Fortini chiamò «una zona di verità». Dopo il grigio commiato agli amici di prima, agli ex compagni di strada (Agli amici, 1957); dopo aver decretato la fine dell’intellettuale funzionario e organico; dopo avere consegnato il proprio congedo dagli intellettuali alle pagine di «Quaderni piacentini» (1963), essere intellettuale frate significò per Fortini fare come colui che «senza alcun mandato, alla fine di una riunione alza il dito e pone alcune domande».9 Essere uno che dialoga, dunque. E per non allontanarsi dalla metafora cristiana, nel 1965, lui che nel 1958 aveva scritto di voler stare dalla parte degli invisibili, affermerà che l’unico modo per obbligare gli altri a tenere conto di noi, come per duemila anni predicato dal Cristianesimo, è quello di lasciarsi andare, mettersi da parte, savèr de non esser gnente per dirla con Noventa, stare fuori dalla strada, e proprio là magari correre il rischio di incontrare il «partito» e riconoscerlo come tale.
Quando arrivò a Catania, Fortini stava pertanto affinando la propria capacità di ascolto e comprensione della scelte e degli atteggiamenti altrui, specie dei più giovani. Nel corso di quell’anno esercitò questa sua volontà a Lecco come a Catania – ma anche in piccoli centri come Ragusa e Vittoria, dove, sempre per invito del CUC tenne altre due conferenze dal titolo La cultura italiana durante il fascismo.10 Non sbagliava Muscetta, che in quegli anni insegnava Letteratura italiana presso la Facoltà di Lettere di Catania, quando definiva i giovani del CUC e redattori di «Giovane critica» «fortiniani scalzi», alludendo a un vero e proprio apostolato dello scrittore in quella città.11 I «fortiniani scalzi» consideravano i Dieci inverni come un Vangelo antistalinista. Dall’incontro tra Fortini e quei giovani nacque una poesia, Ad amici catanesi composta forse in albergo e circolata per anni a Catania all’interno di una stretta cerchia di persone gravitanti attorno al CUC. Una poesia che si colloca in mezzo a quel gruppo di componimenti che Fortini nel 1965 chiamerà «occasionali»: tutta una produzione «diversa (non voglio dire minore), poesie d’occasione, o scherzose o ironiche, quadri locali, epigrammi».12 Quadri locali. Catania è una conca, un fosso che nasconde la vista della Storia; oppure una superficie «convessa», a tracciare i contorni di un cerchio, immagine di immobilità. Da quella posizione non è solo la Storia a essere celata alla vista dei giovani, ma sono soprattutto questi ultimi, uomini e le donne, gli «esistenti-inesistenti», a essere invisibili a lei, al suo incessante procedere. Si leggano le cinque quartine per intero:
in un contesto di fatiche e di rabbia
della vostra fede nervosa stupisco
che in parte la fossa vi cela del secolo
e mi chiedevo quale dispersione
d’accanimento o bianco miele
su per le membra minute delle ragazze
necessari vi erano e quanta
potenza d’immaginazione
vi dovete o di nevrosi e decisione
d’intelligenza e rapita volontà
per tenere la convessa realtà,
ostinarvi a spezzarne la scaglia,
lo spettacolo impietrito sgretolare
degli dei, il teorema del mare
il violetto del monte,
le lapidi che il fico macchia…
Adempienti con me pazienti uomini
con spine di gioia, non cedete,
dall’auto ridete chiamando sotto casa la notte.13
A giudicare dal trattamento che il maggiore quotidiano cittadino riservò alla notizia della conferenza, l’arrivo di Fortini a Catania non fu salutato come un evento culturale né dalla città, né dal suo tradizionale ceto intellettuale, ma esclusivamente da quel piccolo nucleo minoritario – una «setta» avrebbe detto Fortini – che gravitava attorno al CUC e alle sue pubblicazioni periodiche. Un gruppo che grazie alle proiezioni settimanali di film introvabili, alle accese discussioni che le accompagnavano e – non meno importante – alla presenza di Carlo Muscetta all’Università, andava progressivamente configurandosi come agente di mediazione delle istanze intellettuali più avanzate nel resto del paese, aprendo all’interno della città uno spazio di documentazione e dibattito altrimenti irrealizzabile. E mentre la cultura cittadina scontava l’assenza di istituzioni culturali aggiornate – soprattutto di un’editoria con standard industriali e di una valida e diversificata stampa periodica – dalle colonne di «Giovane critica» avevano già avuto modo di esprimersi critici cinematografici come Pio Baldelli, Lorenzo Pellizzari, Adelio Ferrero, Paul Louis Thirard; Leonardo Sciascia vi aveva affidato le sue «ragioni di chi resta» e un saggio su Manuel Azaña. In tale contesto, il 12 marzo 1964, il quotidiano «La Sicilia» liquidava la notizia della conferenza dedicando all’evento uno scarno trafiletto. Nessun accenno ai motivi per cui si decise di rinviarla di un giorno e spostarla di sede, al perché l’allora rettore dell’Università si fosse rifiutato di concedere uno spazio di proprietà dell’Ateneo, il Museion, perché vi si svolgessero – parole sue – «manifestazioni politiche». Così, senza volerlo, il convegno si svolgeva in ossequio a quella «attitudine alla separazione, sola via a nuove unità» di cui parlava Fortini in quegli anni. Di poco discosta dal cuore della cultura istituzionale della città, in una appartata traversa della letteraria via Etnea, la Sala Spinella fu presa in affitto dai membri del CUC per l’occasione. Qualche anno prima, in quella stessa sede, Ester Fano, allieva di Lucio Colletti, era stata invitata a presentare il primo numero dei «Quaderni rossi». Ora Fortini vi esponeva la sua tesi della fine del mandato sociale degli scrittori, sottolineava i limiti della interpretazione lukacsiana di antifascismo e faceva proprio, rivolgendolo all’uditorio, l’accorato appello con cui Brecht, nel 1935, a Parigi, aveva chiuso il proprio intervento al Congresso internazionale degli scrittori antifascisti: «Compagni! Parliamo dei rapporti di proprietà!». Ad aumentare l’effetto di clandestinità, l’atmosfera protocristiana da catacomba, chi a quella conferenza riuscì ad assistere ricorda una sala gremita e un uditorio in religioso, composto silenzio. Lo schema della conferenza riproduce, anticipandola, l’articolazione tripartita di cui si comporrà il saggio, centrale nel pensiero fortiniano di quegli anni, Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo, pubblicato in Verifica dei poteri (1965), il libro che – insieme a Scrittori e popolo di Asor Rosa e a La forza lavoro intellettuale di Gianni Scalia – determinò una sorta di mutamento di paradigma all’interno della cultura di sinistra in Italia. Simili al saggio sono poi l’impostazione degli argomenti, il sistema di esemplificazioni e il formulario utilizzato. La prima parte di Mandato degli scrittori, dal titolo Brecht e l’origine dei Fronti popolari, apparve poi per la prima volta nel 1964 sul n. 4 di «Giovane critica», privilegio eccezionale che determinò per la rivista catanese nata nel 1963 un primo scatto in avanti delle vendite e rappresentò una anticipazione della prossima svolta in direzione di un maggiore impegno politico. Presto i collaboratori di «Giovane critica» non si chiameranno più solo Baldelli, Ferrero o Sciascia, ma anche Roversi, Luperini, Asor-Rosa, Tronti, Scalia, Rieser, Masi, Della Mea, Fofi. Si cercheranno rapporti più stretti con i «Quaderni piacentini» e uno spazio all’interno del dibattito serrato che in quegli anni si svilupperà proprio nelle riviste della cosiddetta «nuova sinistra». Per questi nuovi gruppi intellettuali, Fortini fu maître à penser e presenza irrinunciabile. Un intellettuale che, rigorosamente, insegnava a pensare la realtà come contraddizione, a osservarla nelle sue pieghe, a scorgerne le indicazioni per il futuro; a non venire mai meno all’obbligo di «traduzione del vero, a quella circolarità che sola può mantenerlo vivo».15 Ogni pedagogia che voglia essere rivoluzionaria – lo avevano capito gli amici catanesi? – dovrà fondarsi sul nesso inscindibile tra traduzione e circolarità del vero, coincidere con il realizzarsi di una «generalizzata pedagogia di tutti su tutti».
Non stupisce l’avere scoperto che – a vent’anni di distanza – Fortini poté ritrovare il filo di quella «conversazione a Catania» apparentemente interrotta nel colloquio mentale con il giornalista catanese Riccardo Orioles, comparso in tv per commentare a caldo la notizia del barbaro assassinio mafioso di Pippo Fava, direttore de «I siciliani»:
che è comparso in televisione la sera
del 7 gennaio 1984
e che forse si chiama Ordales o Rosales
vorrei dire la mia riconoscenza
per l’intelligenza e l’esattezza,
quelle che dal fondo della negazione
e dello sconforto
fanno capire che nulla è morto mai veramente
se c’è la volontà di capire
tranquillamente – e di volere la verità.
A quel redattore che parlava da Catania
come da Managua, da Ciudad de Guatemala,
la riconoscenza, la gratitudine e anche il silenzio
di un vecchio che venti anni fa a Catania
palò a cento o duecento studenti, forse anche a lui;
e sa di essere stato compreso. Con lui
tutto continua.16
1 Una copia di questo testo, ricavato dalla sbobinatura del nastro contenente l’audio della conferenza, è stata depositata nel 2004 presso il Centro studi Franco Fortini.
2 G. Giarrizzo, Catania, Bari, Laterza, 1986, p. 313.
3 A. Berardinelli, Franco Fortini, Firenze, La Nuova Italia, 1973, p. 75.
4 Cfr. A. Recupero, Il CUC catanese e gli altri circoli, in «Pagine dal sud«, X, n. 3, dicembre 1994.
5 Per il testo del documentario si veda F. Fortini, Tre testi per film, Milano, Edizioni Avanti!, 1963.
6 F. Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste (1952-1994), Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 263.
7 Ivi, p. 513.
8 Ivi, p. 345. Corsivo nostro.
9 Ivi, p. 275.
10 Anche di questa conferenza esiste una registrazione, recentemente depositata presso il Centro Studi Franco Fortini.
11 L’espressione di Muscetta è ricordata da Giampiero Mughini, all’epoca dirigente del CUC e redattore di «Giovane critica», in un’intervista rilasciatagli da Fortini per «Mondoperaio» nel 1980, poi in F. Fortini, Un dialogo ininterrotto, cit.
12 Ivi, p. 84.
13 Il testo di questo inedito è stato depositato presso il Centro studi Franco Fortini nel 1994. Il testo di questo inedito è stato depositato presso il Centro studi Franco Fortini nel 1994.
14 R. Luperini, Fortini e la poesia come contraddizione, in Id., Il Novecento, Torino, Loescher, 1981, p. 701.
15 Così si concludeva il passo fortiniano citato sull’invito alla conferenza organizzata dal CUC. Sull’invito erano inoltre riportati alcuni suoi dati bio-bibliografici.
16 Questo inedito, firmato Milano, 7 gennaio 1984, è apparsa qualche anno fa sul sito de «L’erroneo», periodico catanese on line, su autorizzazione di Riccardo Orioles. Una copia è stata recentemente depositata presso Il Centro studi Franco Fortini.