
Lo ricordiamo con un breve testo di Luca Baranelli e un pensiero di Leopardi, letti il 21 giugno al cimitero monumentale di Torino; e con un suo scritto inedito del marzo 2020.
Ho avuto la fortuna di conoscere Francesco nei tardi anni ’60, prima che venisse a lavorare all’Einaudi, quando era ancora un redattore della Boringhieri. Eravamo all’Unione culturale di via Cesare Battisti, in una sala gremita, ma non ricordo per quale occasione (forse uno spettacolo del Living Theatre). Nel dibattito intervenne un giovane magro lievemente ingobbito, dagli occhi vivacissimi, che diceva in modo sofferto cose intelligenti, non ovvie: era Francesco. Simpatizzammo subito e nacque presto un’amicizia fraterna che è durata più di mezzo secolo e mi ha arricchito come poche altre.
Quando, nel 1970, fu assunto all’Einaudi, cominciammo a lavorare nella stessa stanza. Francesco leggeva moltissimi libri, non solo di argomento scientifico, e ne riferiva alle riunioni del mercoledì. Era bravissimo anche nel rivedere e correggere traduzioni scadenti o sciatte e spesso mi aiutava. Il ricordo più bello di questo nostro lavoro in comune fu la revisione radicale, quasi un rifacimento, di Lavoro e capitale monopolistico, l’eccellente libro di Harry Braverman sulla degradazione del lavoro nel XX secolo, che meritava a nostro avviso una traduzione adeguata.
Anche la frequentazione amicale che Francesco ebbe, fra gli altri, con Vittorio Foa, Augusto Graziani, Primo Levi e Italo Calvino testimonia della sua cultura, curiosità intellettuale e passione per il dialogo. (Forse non tutti ricordano che Calvino gli dedicò il lungo poscritto di un articolo su «la Repubblica» del settembre 1984: «ho letto sull’ultimo numero di “Linea d’ombra” uno scritto molto bello di Francesco Ciafaloni sulla vita paesana nell’Abruzzo d’oggi»).
Una conferma straordinaria dei suoi talenti fu il ruolo che Francesco ebbe nel 1983-84. Come rappresentante sindacale della redazione Einaudi, guidò con grande intelligenza e senso di giustizia l’attività del consiglio di azienda nella grave crisi che aveva travolto la casa editrice. Fu lui a ideare, proporre e far accettare la cassa integrazione a rotazione: 15 giorni di lavoro al mese per tutti i dipendenti. Ciò gli valse la fiducia, la stima e la gratitudine dei colleghi, anche di quelli che ancora non lo conoscevano. Fu il suo capolavoro di sindacalista e di uomo giusto. Non solo: ricordo perfettamente che Calvino si consultò a lungo con lui prima di decidere se pubblicare da Einaudi Palomar.
Ci sarebbero tante altre cose da ricordare, come la sua intensa collaborazione ai «quaderni piacentini», a «una città», a «Lo straniero» e a «Gli asini»; o la sua attività nel sindacato. Altri lo faranno.
Da ultimo voglio dirvi che la notte fra il 17 e il 18 giugno, poche ore prima che ci lasciasse, ho sognato Francesco. Era venuto con un’auto molto ammaccata a una strana riunione di amici, forse sindacalisti. Stava bene, indossava la sua giacca spinata, parlava come ce lo ricordiamo tutti. Ci siamo salutati affettuosamente, come vecchi amici che non si vedono da molto tempo. Volevo telefonarvi subito per dirvelo, ma il sogno è finito.
In verità se noi vorremo accuratamente esaminare quello che noi proviamo, quel che passa nell’animo nostro, in occasion della morte di qualche nostro caro; troveremo che il pensiero che principalmente ci commuove, è questo: egli è stato, egli non è più, io non lo vedrò più. E qui ricorriamo colla mente le cose, le azioni, le abitudini, che sono passate tra il morto e noi; e il dir tra noi stessi: queste cose sono passate; non saranno mai più; ci fa piangere.
Francesco Ciafaloni
Malgrado la vecchiaia, malgrado la mia oggettiva insignificanza, mi piace vivere. Mi piace stare, parlare, con mia moglie, a cui mi lega un durevole affetto. Mi piace guardare il mondo fuori dalla finestra. Mi piace guardare gli scoiattoli rossi e grigi che si muovono con agilità e sicurezza sui tronchi rugosi dei frassini. Mi piace sentire i picchi che martellano i tronchi col becco, vedere le poiane che planano ad ali ferme, immobili sul vento. Ma, prima o poi, mi toccherà smettere.
I poeti ci ammoniscono che anche i giovani, i ricchi, i belli, i potenti, prima o poi, devono morire. Solo la morte è immortale. Ma il timore della morte non mi turba perché lei coglie anche figure eccezionali o chi, tipicamente, non dovrebbe morire presto, come i giovani, ma proprio perché minaccia in particolare chi è vecchio, chi ha superato l’aspettativa di vita, come me.
La vecchiaia
Ho superato gli 80 da qualche anno, ma fino a poco tempo fa non ho mai pensato a me stesso soprattutto come a un vecchio. Certo, da vario tempo, se devo descrivermi a qualcuno che non mi conosce, dico che sono un vecchio con la barba e i capelli grigi, ma non mi è mai sembrato che la vecchiaia fosse la mia caratteristica più importante. Ora comincio a pensare che, se non lo è ancora, possa diventarlo a breve. Un’operazione che ho subito mi ha risolto i problemi che doveva risolvere ma mi ha reso consapevole della mia fragilità fisica, della necessità di stare un po’ attento.
Al momento sono, penso di essere, un vecchio in buone condizioni. Continuo a fare ciò che ho sempre fatto da quando sono andato in pensione, vent’anni fa. Leggo. Scrivo pezzetti per le due riviste con cui collaboro da anni, «una città» e «Gli asini». Cerco di mantenermi aggiornato sui problemi che mi coinvolgono da sempre: l’oppressione sociale, lo sfruttamento dei lavoratori; la discriminazione di chi, per l’aspetto o le credenze, è diverso dalla maggioranza. Ma non cerco più di intervenire sui problemi, di aiutare gli altri, personalmente. Forse non l’ho mai fatto abbastanza, ma prima mi sentivo in colpa per questo; ora non più: cosa potrei fare? È già molto se non ho bisogno io di essere aiutato dagli altri, se, per ora, mi sposto con mezzi miei. Sto bene, ma, se non vado a dormire all’ora solita la sera, mi stanco; se mi creo troppi impegni, mi affatico. Non vado avanti ad elencare i segni del mio invecchiamento per non trasformare un invito a reagire al timore della morte in un bollettino medico.
Se da giovane avevo una curiosità, una carica, che mi spingevano a leggere troppo, a cominciare troppe cose, col rischio di non finirle, ora corro lo stesso rischio ma solo perché mi stanco, mi scoraggio. Il mutamento maggiore, a parte l’aspetto, che riguarda soprattutto gli altri, è la riduzione della vitalità, del numero degli amici, delle persone che vedo, con cui parlo. La vera discontinuità è stato il pensionamento. Chi lavora in un ufficio conosce numerosi colleghi, collaboratori e fornitori, cioè, nell’editoria, autori e traduttori. Anche chi lavora alla catena di montaggio e, per lavoro, interagisce solo con oggetti, si trova a stretto contatto con numerosi colleghi, anzi compagni.
Un pensionato che non abbia una famiglia – figli, nipoti – finisce per vedere soprattutto amici vecchi come lui, salvo le persone che incontra per fare la spesa, comprare i giornali, sbrigare pratiche, che sono per forza in età di lavoro. Ma i vecchi possono essere, spesso sono, ancora vitali; sono informati; hanno una storia. Non è la vecchiaia mia e dei miei amici che mi turba. Mi turba invece la sensazione che l’ambiente sociale e culturale di cui ho fatto parte stia sparendo insieme con me, che la vittoria della destra non riguardi solo un’elezione ma sia un’inversione di tendenza sociale e politica generale. Per tutta la mia età adulta sono vissuto in un periodo di rafforzamento dei diritti, di aumento tendenziale della retribuzione del lavoro, di tendenza all’uguaglianza. Il mutamento in meglio non era sufficiente, era lento, ma non era rovesciato da una svolta reazionaria. È possibile invece che la svolta reazionaria adesso ci sia.
I risultati elettorali, i commenti dei giornali, non dipendono dalla mia vecchiaia. Sono diminuiti gli allarmi sui giornali per l’arrivo dei migranti perché gli irregolari sono stati regolarizzati, non senza conflitti, e hanno trovato un lavoro regolare. È però in corso una revisione al ribasso dei diritti dei lavoratori. Un episodio emblematico è l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori nel 2015.
Vecchi egualitari, uniamoci!
Uniamoci anche ai giovani, s’intende. Non è un gioco di parole, è un invito, anche a me stesso, ad uscire dall’isolamento. Se c’è una svolta reazionaria, come c’è, bisogna contrastarla. L’ambiente culturale generale dipende da ciò che noi tutti facciamo, da ciò che ogni generazione trasmette alla successiva. Il mondo cambia ma non senza il nostro contributo. Ha perfettamente senso continuare a studiare e criticare anche se siamo vecchi. Vedranno gli altri se ciò che scriviamo ha senso per loro. Teniamo le orecchie e gli occhi aperti. Può darsi che siamo noi ad essere sordi, non gli altri, in particolare i giovani, ad essere muti. «Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale a la quale nullu homo vivente può scappare» diceva il Cantico delle creature. Opporsi al tracollo culturale, invece, non solo è possibile, è doveroso.