Il poeta nel suo tempo, contro il suo tempo
Antonio Prete

Was bleibet aber, stiften die Dichter.
Friedrich Hölderlin, Andenken

I. Sulla soglia

La poesia vive nella pluralità di forme, di idee, di ritmi. È suono di un pensiero. Ha del suono la ricchezza di tonalità, di registri, di volute. E ha del pensiero il ventaglio delle interrogazioni, delle esplorazioni: fino a quella soglia dove il pensiero guarda il suo vuoto, la sua impotenza a dire e a significare, e per questo confina con l’impensato, e con l’impossibile.

La poesia, come la lingua di cui è fatta, come il silenzio che la abita, non sopporta l’astrazione, né le generalizzazioni: vive nella singolarità di ogni sua esperienza. Questa singolarità di ogni esperienza poetica appartiene a tutte le lingue, a tutte le culture. Per questo ogni discorso sulla poesia non può che muovere dallo sguardo sulle singole esperienze, e non può che essere uno dei possibili discorsi: scelta di un punto di osservazione, scommessa su una prospettiva, proposta di una riflessione.

Scortato, per come è possibile, da questa premessa, mi avvio verso alcune brevi considerazioni. Per la poesia l’epoca è orizzonte, termine di confronto, alimento: sua alterità e sua intimità. Il poeta è nel cuore del proprio tempo perché a quel tempo appartiene la propria lingua e il proprio pensiero, e da quel tempo muovono verso di lui, verso il suo Dichten, le immagini dei viventi, della natura, di quel che chiamiamo storia, le forme dell’accadere e le presenze umane e animali. Ma il poeta è anche, nello stesso momento, oltre il suo tempo, e per molte ragioni. Anzitutto perché la sua lingua fa esperienza del non ancora detto, si disloca verso la soglia dell’indicibile, così come corteggia il non vissuto, dà forma al non accaduto, si disloca, come diceva Baudelaire, «au de là du possible». Ma anche perché con la sua lingua il poeta tenta l’azzardo, compreso quell’azzardo che, con Mallarmé, si sporge sul vuoto di senso o sul nulla. Lo sguardo del poeta, come quello dello straniero, è rivolto verso quel che è fuggitivo, impalpabile, intransitabile, insomma verso le nuvole: «J’aime les nuages… les nuages qui passent… là-bas… là-bas… les merveilleux nuages…», esclama l’étranger baudelairiano. Il paese del poeta è un paese di nuvole. A una “patria di nuvole”, a una Volkenheimat, secondo il poeta romantico tedesco Jean Paul, appartiene il poeta. Anche davanti a quel che diciamo reale – o, programmaticamente, realismo – il poeta è in stato di disarmonia. Ecco una frecciata del giovane Baudelaire, nello scritto dal titolo ironico Puisque réalisme il y a. «La poésie est ce qu’il y a de plus réel: est ce qui n’est complétement vrai que dans un autre monde». In questo autre monde la poesia ha il suo compimento, la sua ragione, la sua verità. Questa tensione verso l’alterità è per Baudelaire la cifra più propria del poetico. Questo altrove è il compimento pieno dell’invocato realismo.

Se poi ci chiediamo quale possa essere la relazione tra la poesia, cioè il poiein che è lingua, suonosenso, suono del pensiero, e quell’altro poiein che raccogliamo sotto la voce di azione, insomma tra la lingua-invenzione e il linguaggio dell’agire, incontriamo una recisa, un poco enigmatica, affermazione di Rimbaud: «La Poésie ne rythmera plus l’action. Elle sera en avant». Sui significati di questo en avant, di questo prima e oltre e al di là e al di sopra dell’azione c’è una riflessione di René Char, Réponses interrogatives à une question de Martin Heidegger. La question posta dal filosofo tedesco al poeta francese aveva appunto per oggetto il come interpretare l’affermazione di Rimbaud. In questo novecentesco dialogo tra il poeta dei Feuillets d’Ypnos, scritti nel maquis, e il filosofo di Essere e tempo, che aveva aderito al nazismo, la lingua della poesia si delinea non come l’oltre di una riconciliazione tra reale e ideale, tra storia e utopia, ma come il linguaggio che pur prendendo su di sé le ferite e gli inganni e le scommesse della storia è sempre en avant, e non nel senso dell’avanguardia, ma nel senso di un precedere che è allo stesso tempo annuncio e alterità. La poesia come lingua prima della lingua, canto che precede la partenza, possesso di quel che si abbandona.

Quel reale per il poeta coincide con tutto il visibile, con un visibile, tuttavia, sottratto alla sua opacità, alla sua nebbiosa riduzione all’utile, con un visibile che ha con sé l’invisibile. Liberare il visibile è per Yves Bonnefoy il compito proprio della poesia: «délivrance du visible». Dare forma e presenza a quel che vede lo sguardo interiore, e insieme, disvelare – rivelare – quel che è velato dall’abitudine e dalla ripetizione.

Le rapide affermazioni evocate fin qui potrebbero essere un primo margine alla nota affermazione di Leopardi: «Gridano che la poesia debba esserci contemporanea… Ma io dico che tutt’altro potrà esser contemporaneo a questo secolo fuorché la poesia» (Zibaldone, 2994-1946, 11 luglio 1823). Certo, l’affermazione di Leopardi aveva per orizzonte riflessivo e critico il suo secolo, che lui chiama «egoista e metafisico», ovvero quella modernità nella quale, mentre cadevano le «passioni nobili e forti», si affermava già il dominio dell’economico, o delle gazzette, evocate di lì a poco dal Tristano nelle Operette morali, e si diffondeva quella conformità – o omologazione, per dirla con il leopardiano Pasolini – che si accompagnerà a una società dell’apparire. È questa società in scena che osserverà l’ultimo Leopardi, quello dei napoletani 111 Pensieri. A quella società la poesia non poteva essere contemporanea. C’è da dire che quello sguardo leopardiano, dissonante dal suo secolo, è ancora, o dovrebbe essere, soprattutto oggi, in questa società-spettacolo, il nostro sguardo.

II. Abitare poeticamente la terra

Un modo che il poeta ha di scrutare il proprio tempo è il domandarsi su quale è la presenza della natura nel giuoco delle forze che definiscono la civiltà. Già il giovane Leopardi, in polemica con quella pretesa mimesi della natura proclamata dai “romantici” milanesi, dopo aver constatato come il proprio tempo avesse “incrostato” di “incivilimento” la natura, si faceva una domanda che torna a noi, integra, oggi, risonante all’altezza della nostra epoca: «come abitare in un mondo snaturato la natura?».

Per un poeta abitare la natura vuol dire interrogare il visibile al di là della sua riduzione a scena, a paesaggio artificiato, a cartolinesca veduta, dialogare con quel che resta di una devastazione messa in atto da una civiltà che ha portato anche il naturale nel sistema del consumo, dell’appropriazione, dell’alterazione. Vuol dire anche, certo – come nel suo tempo già Virgilio, nella prima Ecloga, aveva mostrato – evocare quel che di armonia con la terra è perduto, portando nel linguaggio lo stupore e la malinconia di un’assenza. E vuol dire soprattutto disporsi dinanzi al visibile con lo sguardo con cui Leopardi interroga la natura.

Leopardi, non rimuovendo la mediazione degli antichi che alla natura erano prossimi, dopo aver sottratto l’idillio alla disposizione solo evocativa e contemplativa, porta l’interrogazione del visibile e del nascosto sulla soglia dove il pensiero tenta l’azzardo. Che è quello di voler dire l’infinito. Il visibile della natura, la sua relazione con il vedere e con gli altri sensi corporei di colui che guarda, si mostra al poeta come prossimità fisica, sensoriale: da qui l’insistenza del deittico, del dimostrativo (quest’ermo colle, questa siepe, di là da quella, queste piante, quello / infinito silenzio, questa voce, questa / immensità, questo mare). Lo sguardo del poeta muove da quel che è escluso verso l’estremo del dicibile: per fare esperienza infine, dopo questa interiore e immaginativa odissea, di un naufragio, un naufragio del pensiero. In questo naufragio, in questo confine estremo dove il pensiero sta davanti all’impensato, all’infigurabile, al non rappresentabile, insomma in questo scacco assoluto del pensiero, il poeta incontra l’indefinito, cioè il dicibile dell’infinito, lo incontra nella forma immaginativa e visiva del mare. Un incontro che dischiude una dolcezza: «e il naufragar m’è dolce in questo mare». È la dolcezza, la douceur che era propria della lingua poetica, fin dai provenzali e dallo Stilnovo. La poesia leopardiana dell’infinito è, per questo, una meditazione poetica sull’essenza stessa del poetico.

Ma, per restare per poco ancora nella poesia leopardiana, la natura è anche tempo del bios, tempo del fiorire e dello sfiorire, tempo della distruzione e della rinascita, un tempo che l’epoca, cioè il tempo storico, tende a rimuovere, esaltando l’edificazione assidua e progressiva di una civiltà compresa delle sue stesse «magnifiche sorti». Le «tenebre» di cui dice il versetto di Giovanni posto ad epigrafe del canto La ginestra, consistono anche in questa rimozione del ritmo proprio della natura, il quale è invece in accordo con la luce dell’origine. Un accordo che la natura, qui, nell’aridità del deserto, mostra attraverso la figura esile di un fiore, la ginestra. Un fiore che, in quanto fiore del deserto, può richiamarci alla mente la Niemandsrose di Celan, anch’esso un fiore nelle tenebre della civiltà, un fiore sull’abisso. Tuttavia la leopardiana ginestra, nella negazione messa in opera sia dall’azione distruttiva della natura, del Vesuvio, sia da una storia di civile tracotanza umana, è figura della finitudine, della sua accettazione. Il suo profumo che «consola il deserto» è in accordo con quella luce alla quale gli uomini hanno invece preferito le tenebre.

Il dialogo nascosto, inconsapevole, di Leopardi con Hölderlin è proprio in questa esperienza di una poesia che cercando un accordo con il ritmo profondo della terra, incontra di questo accordo un segno, cioè una figura esile, sparente, ma luminosa. I «poeti nel tempo della povertà», intorno alla cui necessaria presenza si domandava Hölderlin, sono coloro che accolgono nella lingua queste figurazioni di un’assoluta alterità, figurazioni che coincidono con quel che della terra è nascosto, o perduto, o distrutto dalla civiltà. In forme analoghe, al convito di pensiero e di poesia convocato dall’altra domanda hölderliniana su come abitare poeticamente la terra diversi poeti risponderanno, anche nel Novecento – da Rilke a Trakl, da Machado a Pascoli, per dire solo di alcuni – ma tutti interrogando, in una prossimità anzitutto interiore, la natura, il vivente della natura.

Nella nostra epoca la domanda su come abitare poeticamente la terra è ancora più scandalosa perché più estesa è la devastazione sopravvenuta, più difficile, se non irrimediabile, una possibile armonia con il naturale, con il visibile e il nascosto e il vivente della natura.

Abitare poeticamente la terra, nell’epoca del disastro ecologico, quando la stessa sopravvivenza del pianeta è minacciata, vuol dire anzitutto, dissipato ogni locus amoenus, leggere il vivente della natura nella sua sofferenza: dal leopardiano “giardino della sofferenza” sale verso di noi, oggi, un’interrogazione sul tragico che coinvolge l’uomo e la natura. Paesaggio e destino si uniscono. In una poesia come quella di Zanzotto – si pensi al Galateo in bosco – questo dolore della physis piega a sé la lingua stessa, che diventa lingua di detriti, di fossili, di ceneri. Il poeta è il nuovo Orfeo che viaggia «dentro le primavere delle ossa in sfacelo». In questa caduta di ogni allegorica raffigurazione della vanitas, la lingua del poeta, in tutta la sua estensione, tra aulico e rusticale, tra echi del sublime e sonorità inceppate, abita poeticamente la terra incontrando il movimento della pietas, inteso come com-passione nei confronti di tutto quel che è vivente o che è stato vivente.

III. Ospitalità della lingua

«La poesia: pensare contro l’oblio». È un passaggio di Edmond Jabès in un suo scritto sulla poesia. E sotto il titolo La tentation de l’oubli Yves Bonnefoy raccoglieva alcune sue conferenze sulla poesia di Baudelaire. La poesia come resistenza all’oblio. E questo non solo nel movimento che attraverso il ricordo dà presenza a quel che è assente, ma anche nella restituzione di vita e di luce nei confronti di quel che è nascosto, o allontanato dallo sguardo del cosiddetto vivere civile. Già nella metà dell’Ottocento, in quella società che Walter Benjamin esplora e interroga, in una serrata e animatissima esegesi per frammenti della scrittura di Baudelaire, la nuova città, la «ville nouvelle», si edificava allargando l’esclusione, la dimenticanza, la marginalità.

Dinanzi a questo nuovo tempo, di cui figura immediatamente leggibile è la riforma urbanistica voluta da Hausmann – che Benjamin dirà «abbellisement stratégique» – un poeta come Baudelaire mette in scena, nel poème Le Cygne, le forme con cui la lingua della poesia resiste a quell’opera di ottimistica, esaltante, trasformazione urbana e sociale. Quel che la nuova città del boulevard, dei passages, della esposizione delle merci, della folla, esclude dal suo luminoso e progressivo cerchio, il poeta convoca verso la presenza. Il cigno, in un’alba, in mezzo al cantiere, sfuggito alla gabbia nella quale è trasportato, mentre gratta con le zampe palmate il pavé asciutto, solleva il collo e il becco verso il cielo come invocando la pioggia. Il cigno apre il corteo degli esiliati, dei sofferenti, dei dimenticati, dei vinti, cioè di tutti quelli che la gridata fascinazione del nuovo ha sospinto ai margini. Nella foresta della dimenticanza («la forêt où mon esprit s’exile», dice il poeta), in quella foresta c’è un personaggio, il Souvenir, che può chiamare a sé le figure perdute, abbandonate. Le Souvenir, personificazione della lingua poetica, leva nella foresta della dimenticanza il suo corno e chiama a sé, sotto la sua protezione, quel che è allontanato e perduto.

Scrive Jabès nel Libro dell’ospitalità: «Una parola di dieci lettere è il territorio dell’ospitalità. Proteggi ciascuna di quelle lettere. Poiché dappertutto, intorno, c’è l’inferno, il sangue, la morte». È il modo che un poeta ha di stare nel suo tempo, contro il suo tempo. La lingua della poesia occidentale, da una parte, con le sue forme si pone, sin dai primi lirici greci, come mimesis del visibile, dell’udibile, cioè porta nella lingua la natura, il suo mostrarsi, che ha già una sua voce (già Alcmane diceva di aver trovato il canto portando nella lingua il grido della pernice).

Dall’altra parte, allo stesso tempo, mentre la poesia riflette la sua epoca, può indicare e denunciare di quell’epoca quel che agisce contro l’umano. Fin dall’epos greco, stando alla bellissima lettura che Simone Weil fa dell’Iliade, l’esercizio, per esempio, della crudeltà, connaturale alla guerra – cioè la riduzione dell’altro, del nemico, a pura, inerte, cosa – è contraddetto dall’irruzione possibile della presenza dell’altro, dell’altro la cui prossimità può suscitare il sentimento della compassione. Il che non accade, aggiunge Simone Weil, nelle guerre del suo tempo (del nostro tempo).

La lingua della poesia è ospitale. Questa ospitalità della lingua, che l’arte della traduzione mostra per dir così nella sua essenza, perché dà nuova vita a quel che è estraneo e lontano accogliendo e ricomponendo lo straniero, il suo testo, è propria della poesia in quanto tale, della sua lingua. Dinanzi al tragico dell’epoca la lingua della poesia è chiamata alla sua responsabilità. Essa accoglie la ferita, nomina la distruzione, dà alla devastazione dell’umano una rappresentazione, e allo stesso tempo è a sua volta ferita e interrogata da quel tragico, e proprio in quanto lingua. Fino a dubitare che possa a quel tragico rispondere: da qui la domanda adorniana se sia ancora possibile la poesia dopo Auschwitz. Domanda alla quale molte risposte sono state date. Evoco qui quella di Edmond Jabès: «Non si racconta Auschwitz, ogni parola lo racconta». Perché quel tragico penetra nel linguaggio, insanguina il linguaggio stesso, lo sottrae alla quiete dell’innocente descrizione, all’incantamento dei giardini d’amore o della luminosa beltà. Ed è con quella parola ferita, piegata dalla distruzione, sconvolta dalla terribile giostra della sparizione che il poeta risponde. Un poeta come Paul Celan edifica, di verso in verso, la sua salmodia sopra il tempo dell’eccidio, sopra l’ombra immensa, scura, che è ritmo dell’epoca e annera la parola e inghiotte la verità, anzi si mostra come verità. Se in Todesfuge la forma poetica cerca di mostrare, insieme, nella loro tragica contiguità, la musica e l’orrore, il ritmo del verso e il «nero latte dell’alba», le immagini della bellezza e la distruzione, i capelli d’oro di Margarete e i capelli di cenere di Sulamith, in Psalm e in tutte le composizioni di Die Niemandsrose la parola poetica è suono e immagine del fiorire reciso, della luce spenta, del desiderio annegato, della poesia stessa travolta dall’impeto nientificante del tragico. E tuttavia, lungo l’odissea della lingua ferita, la poesia può confrontare, ancora, «la parola conquistata tacendo» (das erschwiegene Wort) con quella parola sorvolata da stelle (das sternüberflogene Wort), quella parola che appare, non a caso, nei versi dedicati al poeta René Char (Argumentum e silentio). Può confrontare la parola di un dire poetico che ha per sorgente e radice e protezione il silenzio e la parola sulla quale transitano le stelle, ovvero la parola dell’irraggiungibile alterità (anche nella Commedia Dante aveva indicato questo stesso nesso chiudendo ogni Cantica con la parola stelle).

IV. Indignazione e forma

Dinanzi alle forme di potere autoritario, all’esteso esercizio della sopraffazione, ai dispositivi che cancellano nell’astrazione geopolitica la fisicità dei corpi, che sacralizzano i confini tra gli Stati trasformandoli in altari per le vittime, dinanzi agli stermini messi in opera, quale la posizione, o il compito, della poesia? È vero che talvolta alla poesia è accaduto di farsi voce dei poteri dominanti, ma più spesso i poeti hanno scelto la distanza, facendo della lingua e dei suoi modi la loro postazione, altre volte hanno scelto la via più diretta, quella di animare la lingua con la passione della critica. Ma poiché la poesia è un sapere la cui lingua è insieme conoscitiva e musicale, cioè partecipa dell’invenzione e fa del pensiero un suono, la sua domanda più propria dinanzi alle forme del potere è: come dare all’indignazione una forma, al grido un’immagine, alla rivolta un suono?

Osservare, poeticamente, il tragico, vuol dire dare rilievo al corpo, alla singolarità vivente e senziente dell’individuo. Come per Antigone, è il corpo dell’altro, la sua ferita, la sua esposizione alla rovina, che è principio di amore e di parola. Inoltre, lo sguardo sul tragico può trasformarsi in uno sguardo su di sé, in una domanda sulla relazione tra il sé e il corpo-vittima, il corpo che il dolore ha distrutto. Baudelaire mostra nel poème Un voyage à Cythère la forza di questa interrogazione sull’altro, sull’orrore che lo ha devastato, proprio nell’isola dedicata alla dea dell’amore, sotto un cielo splendente. Dinanzi al corpo di un uomo appeso a un albero-forca, straziato dai corvi, mentre deflagra ogni mitografia della bellezza, il poeta vede in quel sembiante la sua propria immagine: lo sguardo sull’altro coincide con l’interrogazione su di sé. Il corpo dell’altro rinvia al sé: «Hélas! Et j’avais, comme en un suaire épais, /Le coeur enseveli dans cette allégorie» («Ed avevo, ahimè, come dentro un grosso sudario / il mio cuore sepolto in questa allegoria»).

Le forme poetiche dell’indignazione dinanzi al tempo presente non sono codificabili: niente in poesia lo è. La poesia italiana ha, nelle sue fondazioni, il grandissimo esempio della Commedia di Dante. E la poesia detta civile ha i suoi cammini, le sue forti presenze, e respira nella fragile, difficile unità di denuncia e forma, di grido e stile, di rivolta e immagine. È troppo facile, e talvolta miope, opporle la poesia che sa di stare nel giuoco del linguaggio, la poesia detta sperimentale. La critica del tempo presente che la poesia mette in atto tanto più è forte quanto più la forma del dire si sottrae alla convenzione e segue le vie dell’invenzione.

E tuttavia nella denuncia del tempo presente, nella rivolta contro le forme del potere che generano diseguaglianza, esclusione, distruzione del vivente, la poesia, per la natura della sua lingua, non può attestarsi, in quanto poesia, nella rassicurazione del vessillo politico. Ci sarebbe, ancora, il rischio dell’astrazione, cioè della distrazione dal compito più proprio della lingua. Compito che consiste nella cura del visibile. In questa cura del visibile c’è anche il movimento verso il confine con l’invisibile, c’è l’ospitalità di tutte le forme viventi e l’interrogazione di sé nel rapporto con quel che è vivente. L’estraneità della poesia, della sua lingua, alla lingua del potere, ha una sua classica, costitutiva e storica figura: l’esilio. La condizione stessa del poeta è quella dell’esiliato: priva di protezione e di appartenenza, la lingua è il suo vero paese d’appartenenza. Con nomi imbevuti di esilio, come dice Celan («Mit Namen, getränkt / von jedem Exil»), il poeta abita la sua lingua. Dai Tristia di Ovidio ai Tristia di Mandel’štam, la lingua d’esilio propria della poesia è lingua della sospensione, dell’attesa, del legame con l’altrove, ma anche lingua della lontananza da ogni identificazione con l’oscura forza del potere, dei poteri.

È in questa lontananza dalle forze in campo, e dal loro esercizio, in questa fragilità esposta, in questa estraneità all’epoca, che il poeta può trovare il legame con il proprio tempo, la sola profonda sintonia che conta, quella che, mentre si prende cura, con sollecita prossimità, del visibile e del vivente, non rinuncia a dialogare con la mancanza, con il non ancora, con il sogno. E accoglie, qui e ora, con la lingua, nella lingua, il respiro di quel che è assente, o negato, o impossibile.

[Lezione tenuta il 5 giugno per Poesiæuropa 2025, Isola Polvese, Lago Trasimeno]