
Linguista e storico della linguistica di lungo corso, Giorgio Graffi ci offre un ritratto di uno degli intellettuali più attivi tra linguistica e geopolitica, tra vecchio e nuovo secolo: Noam Chomsky, che nel prossimo dicembre compirà novantasette anni essendo nato il 7 dicembre 1928. Il libro ne affronta la figura sul doppio binario della storia delle idee linguistiche e dell’impegno etico e politico, ambito che Chomsky ha frequentato a partire dagli anni Settanta almeno quanto il primo e che ha contribuito a farne uno degli intellettuali più noti al grande pubblico. Tenere unite queste due parti della personalità dell’intellettuale americano facendo interagire settant’anni di storia accademica (1950-2020) con l’impegno maturato sui fronti dell’Indocina e del Vietnam, del Medioriente e del conflitto israelo-palestinese, di quello russo-ucraino e non ultimo con uno sguardo critico sulla “fabbrica del consenso” espresso dalla democrazia americana per lo meno dall’ultimo dopoguerra, non è – si capisce – impresa facile. Tanto più se condotta fuori da ogni spirito annalistico e cronologico, con attenzione ai problemi e nodi tematici che il primo capitolo del libro annuncia e che poi l’autore sviluppa con forte interrelazione, e frequenti rimandi, nei capitoli successivi. Così, per esempio, illuminando le concezioni filosofico-linguistiche che, tra pragmatismo, filosofia analitica e linguistica strutturale americana hanno influenzato il linguista, il secondo capitolo anticipa il concetto di “ricorsività”, poi fondamentale in tutta la teoria chomskiana della lingua.
Non è per solito ricordato che Chomsky orientò i primi studi accademici all’Università di Pennsylvania verso la semitistica e, in particolare, conoscendo l’ebraico moderno e quello biblico per tradizione di famiglia, soprattutto verso l’arabo, con uno sguardo sul mondo mediorientale che sottintendeva, agli inizi, convivenza e collaborazione tra le due popolazioni. Quell’orientamento, ci ricorda ora Graffi, fu favorito dall’incontro con Giorgio Levi Della Vida (1886-1967), orientalista italiano emigrato alla fine degli anni Trenta per aver rifiutato di giurare fedeltà al fascismo che all’università insegnava soprattutto arabo. Quell’incontro fu il primo di una serie che troverà poi completamento negli anni alla Harvard University e nell’approdo (1957) al Massachusetts Institute of Technology (MIT) come professore, ma fin da subito ci avverte della valenza umana e intellettuale che per Chomsky rivela la disciplina scelta. Ciò appare del resto chiaro fin dal primo discorso politico che il giovane linguista tiene alla Harvard nel marzo 1966, American Power and the New Mandarins, in cui all’intellettuale è riconosciuto un compito che va oltre l’orticello della propria specializzazione e impone, come scriverà nel 2001, di «smascherare menzogne e controverità».
Graffi lo sottolinea bene facendo di Chomsky, da un lato, un «figlio dell’Illuminismo» capace, con l’analisi e la riflessione, di porre in discussione i principi dell’autorità tradizionale e, dall’altro, riconoscendo, sul terreno specifico della linguistica, l’importanza di un filone razionalistico che da Cartesio arriva a Humboldt, passando per la grammatica di Port-Royal e le idee linguistiche dell’Encyclopédie. Si ammetterà che una tale complementarità di fronti nella ricostruzione del profilo intellettuale di questo grande linguista non è, oggi, più cibo quotidiano di una disciplina divenuta nel tempo estremamente tecnica e restìa a connettere scienze “dure” e humanitates. E, sotto questo profilo, va detto che, per formazione e percorso intellettuali, Giorgio Graffi è tra i linguisti della sua generazione quello che, per vicinanza al maestro e interessi umanistici e storico-politici, meglio poteva tenere insieme i due aspetti.
I capitoli tre, quattro e cinque del libro, che ne conta otto, affrontano la storia e l’evoluzione della teoria linguistica di Chomsky, passato, dopo gli studi secondari, dall’arabo e dalla semitistica dei primi anni di studio alla linguistica. Decisivo in questo mutamento di rotta è un altro incontro, quello con Zellig S. Harris esponente della linguistica strutturale statunitense nel quale Chomsky trova il suo primo maestro. Ne avrà altri, ma Harris resta probabilmente il principale anche perché sa incoraggiarne gli interessi politici: il risultato sarà la tesi, nel 1951, sulla morfofonemica in ebraico moderno, lingua che gli era nota anche per tradizione familiare. È in questo lavoro che compare per la prima volta l’aggettivo «trasformazionale», già presente in Harris ma che Chomsky impiega nel significato di «operazione sintattica generativa» di un insieme infinito di frasi (p. 74) e che qualificherà, con successivi adattamenti di senso, la sua teoria linguistica successiva. Ma a quella data inizia anche il distacco dal maestro, maturato prima con la conoscenza del linguista Yehoshua Bar-Hillel e poi, alla Harvard, con Eric Lenneberg, dal quale origineranno le teorie innatiste e biologiche del linguaggio che Chomsky farà sue. Non seguo la densa ricostruzione dell’autore che illustra i modelli ritenuti da Chomsky via via capaci di descrivere «adeguatamente» le lingue naturali, e che possiamo trovare alle pp. 87 e sgg., se non per sottolineare come si faccia sempre più centrale per lui il ruolo della componente biologica nell’acquisizione del linguaggio e come questa implichi l’esistenza di «universali linguistici», cioè una teoria della Grammatica Universale delle lingue. Anche qui, però, Chomsky è distante dall’attenzione che la linguistica tradizionale ha per la descrizione delle lingue ed è interessato piuttosto alle capacità linguistiche umane e al modo in cui queste si acquistano e si sviluppano. Si oppone in questo a una concezione strettamente biologica del linguaggio e al ruolo dell’esperienza e dell’insegnamento parentale, rivendicato dalla linguistica comportamentistica ma ai suoi occhi insufficiente a spiegare l’acquisizione del linguaggio. È chiaro che così pensando, l’approccio si orienta sempre più verso le scienze della natura che sente prossime e, in particolare, verso la fisica e la chimica. Qui si consuma anche la differenza con altre branche della linguistica, in particolare la linguistica strutturale di Sapir e quella comportamentista di Bloomfield, o la distanza con un filosofo come Quine, che aveva attratto Chomsky negli anni della Harvard e attribuiva l’acquisizione linguistica a meccanismi innati, ma riducendoli sostanzialmente all’induzione e all’analogia. Le pagine in cui Graffi pone a confronto le teorie mentaliste e innatiste di Chomsky con quelle di altri teorici, da quelle del linguista tedesco Hermann Paul, alle idealistiche del Croce, alle «costruttiviste» dello psicologo svizzero Jean Piaget (1896-1980) ad altre ancora, sono un’ulteriore cospicua prova dell’apertura intellettuale dello studioso, che nella ricostruzione del pensiero linguistico chomskiano trascorre a suo agio dalla linguistica alla filosofia alla storia della scienza o, in ambito politico, alla storia del pensiero e delle dottrine politiche. Questo percorso, che nell’ultimo capitolo specificatamente “linguistico” del libro (cap. V) raggiunge una notevole complessità, affronta problemi diversi come, per ricordarne qualcuno, la teoria degli universali linguistici e della «Grammatica universale», , il rapporto di Chomsky con la pragmatica (cioè una concezione del linguaggio come “performance” e «atti linguistici») o quello dell’innatismo del linguaggio e della sua evoluzione biologica.
Per chi crede al ruolo dell’innatismo nell’acquisizione linguistica (ancorché figlio del razionalismo illuministico), una visione storicizzante e progressista del mondo può apparire inconciliabile tanto più se, come Graffi sottolinea, la costruzione della propria personalità è, per Chomsky, in gran parte riconducibile a un’origine genetica («sono convinto che, indipendentemente dall’educazione o dall’addestramento non avrei mai potuto correre un miglio in quattro minuti, scoprire i teoremi di Gödel, comporre un quartetto di Beethoven» etc., si legge in Linguaggio e libertà [1987], Milano, Net, 2008, p. 190). Graffi ne coglie la contraddizione domandandosi: «perché dovrebbe essere un problema accettare che qualcuno ha nei suoi geni la capacità di diventare un buon violinista e qualcun altro no?» (p. 190). La domanda è semplice, ma il punto è critico perché si intuiscono le derive che in termini di discriminazioni di diritti e trattamento possono venire da una simile premessa. Sul confronto tra innatismo e comportamentismo, del resto, fin dagli inizi degli anni Settanta, Chomsky ebbe un interlocutore d’eccezione come Michel Foucault e come accade in altre occasioni la capacità del linguista fu quella di ribaltare i termini del problema: non è l’idea dell’innatismo ad essere nefasta, è piuttosto la società che è responsabile di non saper valorizzare correttamente le competenze individuali.
Questa fiducia nella ragione trova, come sottolinea Graffi, un avversario anche nei filosofi «postmoderni» contemporanei come Jacques Derrida, in Francia, o Richard Rorty, negli Stati Uniti, dei quali Chomsky stigmatizza la dimensione irrazionale, quasi caricaturale, che danno della «scienza» e l’argomentazione, da lui giudicata spesso incomprensibile. Ragione e “buon senso” godono in lui, invece, di fiducia totale e sono parametri giudicati sufficienti per intervenire anche su altri campi: sui temi della politica, per esempio, non invece nell’ambito della scienza che per Chomsky «richiede un background, un insieme di conoscenze, e un bagaglio di nozioni tecniche troppo grande» (così il brano cit. a p. 193). Nell’ambito scientifico, come Graffi ricorda a p. 208, non hanno spazio neppure le componenti proletarie o borghesi della società civile, perché la scienza è una e per Chomsky non facilmente condizionabile dalla situazione storica o dai rapporti di produzione. C’è spazio, evidentemente, per un forte dissenso a fronte di un’argomentazione che, mentre sembra ricuperare qualcosa della polemica postmodernista contro le élites, fa della scienza un baluardo retto unicamente da pilastri morali. Ma ciò che affiora come una contraddizione nel diverso regime di scienze “dure” e “umane” è che il secondo ambito appaia gestibile senza requisiti che non siano la ragione e il buon senso, che l’intellettuale deve possedere insieme a una buona informazione. Graffi mostra come queste siano tematiche “aperte” che in Chomsky derivano da una lettura particolare dei classici del pensiero occidentale, da Adam Smith a Hume. Una lettura filtrata da una visione anarchica del mondo che l’autore documenta qua e là nel libro come il risultato di una particolare convergenza di due filoni di pensiero, quello socialista e quello liberale (pp. 194-197). Una tale visione deve probabilmente qualcosa anche allo studio di Chomsky della Spagna repubblicana e del modello di collettivizzazione dal basso, che fu patrimonio del maggior sindacato d’ispirazione anarchica e in lotta con un partito comunista all’epoca d’ispirazione strettamente sovietica, la Confederación Nacional del Trabajo (ricordato a p. 198). Si aprono qui pagine sulla lettura che Chomsky fece di Marx, sulla capacità di intenderne la teoria nonché sulla distanza che separa il linguista dal rivoluzionario e che Graffi spiega in parte con gli ambiti diversi cui i due intellettuali si applicarono (p. 208).
Una sensibilità politica più quotidiana rivelano due episodi che introducono all’ambito più politico dell’attività di Chomsky e che l’hanno visto protagonista nella difesa dei diritti di Robert Faurisson, professore all’Università di Lyon 2 (noto per aver negato a più riprese le camere a gas naziste e processato per questo) e nell’episodio delle vignette su Maometto della rivista “satirica” francese «Charlie Hebdo», costato la vita a dodici giornalisti, nel 2015, in seguito all’attacco di un gruppo di fondamentalisti musulmani. In entrambi i casi, ma soprattutto nel primo, ha prevalso in Chomsky la difesa del diritto a manifestare idee giudicate detestabili, posizione del resto, osserva Graffi, fatta propria già dalla Corte suprema americana a proposito per esempio delle idee suprematiste del Ku Klux Clan (pp. 208-211). L’episodio dimostra comunque il carattere di particolare “sovraesposizione” cui è a volte andato incontro Chomsky nelle sue prese di posizione. Da questo piano flebilmente “ideologico” si entra in uno più robusto e internazionale nonché pienamente politico con l’ultimo capitolo del libro. Qui l’azione di Chomsky è misurata in tre contesti diversi: quello delle guerre d’Indocina, con l’intervento diretto degli Stati Uniti in Vietnam, Cambogia e Laos; quello in cui, a partire dagli anni Sessanta, si occupa del conflitto in Medio Oriente; e l’ultimo, la guerra seguita all’invasione russa dell’Ucraina nel 2022. Isolo qui solo il tema mediorientale, trattato alle pp. 232-247, perché è forse quello in cui maggiore è stata l’evoluzione di questo intellettuale di origini ebraiche. Non è un mistero che Chomsky parta da posizioni filosioniste e addirittura, all’inizio del 1953, compia un soggiorno di alcuni mesi in Israele, attratto dal mito di un «socialismo del kibbutz», in cui vedeva forse riflesso qualcosa dei processi di collettivizzazione spagnoli e, più tardi, anche di quelli che riteneva avvenuti in Cambogia (ma qui Graffi sottolinea l’analisi inadeguata su cui poggiano le osservazioni di Chomsky: cfr. le pp. 228-229). Come sempre, la densa esposizione che Graffi dà del quadro storico introduce all’illustrazione del pensiero di Chomsky, che all’inizio crede nella possibilità di convivenza di ebrei e arabi-palestinesi e poi lentamente si rende conto del trattamento inflitto alla popolazione arabo-palestinese e ne intuisce l’impossibilità, senza peraltro giungere a equiparare la lotta dei palestinesi contro gli occupanti sionisti alle realtà coloniali del Vietnam o dell’Algeria (p. 240). Il piano di spartizione dell’ONU del 1947 è comunque per Chomsky «un macroscopico errore» perché solo poteva darsi uno stato binazionale, ipotesi che oggi è confermata nel suo carattere profetico dalla violenza dell’occupazione israeliana delle terre palestinesi. Qui Graffi, sempre molto misurato nella ricostruzione del contesto storico-politico, spiega le ragioni del fallimento degli accordi di Oslo (1993 e 1995) nel fatto che «ognuna delle due parti [cioè sionisti e palestinesi] scaricò (e continua a scaricare) la colpa sull’altra» (p. 237); ma qualche pagina dopo il tiro è opportunamente corretto, con la precisazione che «di fatto, gli accordi di Oslo rappresentavano l’accettazione ufficiale della politica fino a quel momento condotta da Israele nei territori occupati. Non prevedevano la costituzione di uno Stato palestinese indipendente, né tanto meno l’autodeterminazione dei palestinesi, ma solo una limitata autonomia ai territori occupati, che rimanevano comunque sotto il controllo di Israele» (p. 243). Insomma, l’ennesima prova di come nella visione di Israele (e oggi, ahimè, del “grande Israele” sognato dai fanatici religiosi) ci sia posto solo per uno stato “ebraico”.
Resta che il libro è il tentativo più serio, e anche l’unico in Italia, di un profilo ideologico-disciplinare di questo intellettuale che tenga insieme la sue due vocazioni. Chomsky si iscrive ormai in una storia del pensiero occidentale anticolonialista (e libertario) che possiamo modernamente far iniziare con Frantz Fanon, non per nulla autore decisivo anche per un intellettuale americano d’origine palestinese come Edward Saïd. Il nome di Fanon non compare nel libro, ma non mi pare improprio avvicinare il ruolo che l’Algeria ha avuto per lui con quello che Israele ha avuto per Chomsky. Giorgio Graffi, ed è uno dei tanti pregi del libro, propone questo ritratto in una prosa stilisticamente e concettualmente limpida, esauriente nei suoi contenuti e seducente nella forma, che è chiara anche quando la materia si fa complessa. E non mi par dubbio che la difficile promessa di un profilo unitario annunciato nel primo capitolo abbia alla fine davvero avuto buon esito.