
Bologna. Ci sono mostre che sono, semplicemente, delle più o meno accurate esposizioni e poi ci sono mostre che costituiscono, invece, delle esperienze per i visitatori: è questo il caso di Georges Simenon. Otto viaggi di un romanziere che la Cineteca di Bologna allestisce nella suggestiva Galleria Modernissimo (fino all’8 febbraio, info: web@cineteca.bologna.it) a cura di John Simenon e Gian Luca Farinelli, peraltro firmatari del bellissimo catalogo, il quale annovera fra gli altri contributi di Cecilia Cenciarelli, Benoit Denis, John Banville, Serge Toubiana, Lisa Ginzburg, Roberto Calasso, Carlo Lucarelli oltre alle testimonianze di Henry Miller, Jean Renoir e Federico Fellini. La grande ricchezza dei documenti prodotti, spesso inediti o rari, si unisce a una filologia che, nelle didascalie come nei sunti introduttivi di ogni sezione, non perde mai di vista il visitatore: tanto più che la presenza del materiale documentario è, per così dire, di continuo animata da un’iconografia non meno cospicua dove si alternano reperti d’epoca e non pochi scatti dello stesso Simenon, il quale fu, specie fra i tardi anni venti e i trenta del secolo scorso, sia un grande viaggiatore sia un buon fotografo dilettante. La mostra si struttura in otto sezioni collegate a telescopio dove alfa-omega è la scrittura stessa di Simenon, un caso pressoché unico di volontà (contro un ambiente ostile ab origine) che divenne via via necessità interiore: l’urgenza nativa e mai placata portò infatti lo scrittore di Liegi a firmare centinaia di opere (fra romans alimentaires – su tutti il ciclo del commissario Maigret – e i cosiddetti romans durs, non pochi di essi degli autentici capolavori come Il borgomastro di Furnes, 1939, o Il treno, 1961 per citare i meno risaputi) dentro una bibliografia che nessuno potrà probabilmente mai ultimare proprio per la incognita quantità di romanzi che il ventenne Georges sfornava a oltranza celandosi sotto pseudonimi cangianti (non meno di trentatré, stando a quelli già censiti). Dunque le prime quattro stazioni del percorso riguardano Liegi, la soffocante realtà familiare dominata dalla madre Henriette, la scoperta di una Parigi che Hemingway associò allora ad una «festa mobile» (e qui è centrale il rapporto breve e bruciante che lo scrittore ebbe con Josephine Baker, conclamata regina della Revue Nègre), infine i viaggi prima in Francia e Paesi Bassi poi in Africa, Mitteleuropa, Unione sovietica, Mediterraneo e in universi remoti come Ecuador e Tahiti, viaggi che si spiegano tanto con una smania insaziabile di conoscenza dell’altrove e dell’ignoto quanto con l’intenzione di sottrarsi a un clima politico ormai soffocante in Europa, o comunque insalubre per un perfetto conservatore quale fu e rimarrà per tutta la vita Georges Simenon. Non a caso nel suo immediato dopoguerra c’è il decennio americano che apre anche la seconda metà di Otto viaggi di un romanziere le cui sezioni riguardano in senso stretto la scrittura: con un imprevisto trompe-l’-oeil, l’allestimento qui prevede anche la ricostruzione dello studio dello scrittore, con la scrivania, i lapis appuntiti, gli appunti preparatori e i calendari segnati dalla cadenza di un lavoro in effetti irrefrenabile. Una sezione è dedicata a Simenon e l’Italia con un contributo, in catalogo, di Matteo Codignola circa il passaggio, a metà degli anni ottanta, da Mondadori (suo editore storico: e i più anziani fra i lettori non possono non ricordare, negli Oscar, le innovative copertine di Ferenc Pintér) ad Adelphi dove l’opera di Simenon è tuttora esemplarmente curata da Ena Marchi e Giorgio Pinotti. L’ultima sezione è invece relativa al cinema, specie ai volti di Maigret (da Jean Gabin al nostro, indimenticabile, Gino Cervi) ma la vera sorpresa in catalogo è l’intervista di Gian Luca Farinelli a Jean-Pierre e Luc Dardenne, gli autori di Rosetta e il figlio, testimoni di un cinema spoglio, severo, e antidemagogico come, per altra via, è la pagina di Simenon, un cinema costretto a riflettere sul venir meno del legame sociale, a rivolgersi a persone che la recente vicenda politico-sociale ha abbandonato ai margini, in un silenzio cupo: «È la solitudine dei nostri personaggi, questa – dice a un certo punto Luc Dardenne – ed è vero che in Simenon essi sono profondamente soli».
[«il manifesto», 28 agosto 2025]
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