
Nel 1991 Franco Fortini, dialogando in radio con Donatello Santarone, offre agli ascoltatori prima e ai lettori poi una lettura di cinque classici della letteratura italiana, ovvero Dante, Tasso, Leopardi, Manzoni e Pascoli. Il presente volume, recentemente ripubblicato dai tipi di Bordeaux, riproduce la prima edizione uscita nel 2000 per la casa editrice Bollati Boringhieri; nel licenziare l’opera, all’epoca, Santarone si era soffermato su alcune novità del metodo interpretativo di Fortini – in primis, la prospettiva interculturale –, sulle quali il curatore decide di porre nuovamente la sua attenzione nell’introduzione alla nuova edizione.
Pur rintracciando un andamento tra il didascalico e l’allusivo, tipico del contesto radiofonico, le conversazioni con Santarone offrono la possibilità di riflettere su alcuni dei più rilevanti aspetti del rapporto tra Fortini e i classici: innanzitutto, emerge la volontà di non ridurre le opere del passato a monumenti o reperti archeologici, appartenenti a un’epoca ormai lontana da noi e irrimediabilmente perduta. Il tentativo dell’autore, infatti, è quello di scongiurare il rischio della museificazione o monumentalizzazione dei classici, i quali, al contrario, pretendono di trovare adempimento nella comunità dei lettori, istituendo una relazione tra temporalità differenti: vale a dire che, benjaminianamente, si recupera dal passato solo ciò che potrà essere divorato nel futuro. Da qui una visione non rassicurante della tradizione, intesa da Fortini come una forma di ecologia e di purificazione. La costruzione di una tradizione e di un’eredità da tramandare ai posteri non è mai qualcosa di idilliaco o innocente, ma prevede la selezione di ciò che potrà avere un valore per l’avvenire. Ciò porta Fortini ad allontanarsi e a rifiutare lo specialismo accademico, in particolar modo egli prende le distanze, sin dalla pubblicazione dei primi scritti di natura teorica sul classico, da una certa filologia di matrice storicistica che condivide la vana illusione di poter salvaguardare e recuperare, indistintamente, tutto ciò che proviene dal passato. Le letture dei classici proposte nel presente volume, pertanto, si discostano da una critica di natura prettamente accademica, la quale si rivolge a un’élite di specialisti, pur conservandone il «rigore filologico e lo scrupolo documentario» (p. 9).
Come detto in precedenza, le conversazioni radiofoniche sui classici della letteratura italiana risalgono al 1991 e testimoniano l’attenzione di Fortini per la natura e la sopravvivenza del classico nella società contemporanea, sviluppatasi nel corso di tutta la sua carriera intellettuale. Questo interesse si intensifica negli anni della maturità dell’autore, come dimostrano rilevanti contributi presenti nei Nuovi saggi italiani (1987): si pensi a Classico, unica sistemazione teorica e rigorosa sul tema, oppure ai testi dedicati ad Ariosto, Tasso, Leopardi e Manzoni. Fatta eccezione per Ariosto, si tratta di autori ai quali Fortini ha dedicato numerosi interventi, apparsi in più sedi, protagonisti anche delle lezioni universitarie tenute nell’ambito del corso di Storia della critica letteraria dell’Università di Siena, recentemente pubblicate con la cura di Lorenzo Tommasini.
I classici protagonisti di queste letture hanno, secondo Fortini, un valore decisivo per il presente, come ribadito, inoltre, nel corso di alcune interviste rilasciate sul finire degli anni Ottanta: qui l’autore, contravvenendo a un’affermazione di Benedetto Croce secondo la quale «non vi sarebbe nessun motivo di parlare di Dante in modo diverso da come si fa per qualsiasi autore», ribadisce che vi sono alcune figure quali appunto Tasso, Manzoni, Leopardi o lo stesso Dante, che devono essere considerate in maniera differente a causa delle «grandi valenze dell’immaginario che essi portano con sé, e che consentono di farne dei simboli, o meglio delle allegorie di condizioni attuali».1
Un aspetto rilevante che emerge dalla lettura del volume, giustamente ribadito in più occasioni dal curatore del volume, è la particolare prospettiva critica adottata da Fortini nell’avvicinarsi ai classici: si tratta di una forma di interculturalismo, praticata del resto in diverse circostanze dall’autore (e qui basti pensare solo alla sua intensa attività di traduttore), la quale consente di far dialogare tra di loro dimensioni storico-culturali eterogenee, superando una visione ristretta della letteratura e rivolgendo lo sguardo alla cosiddetta Weltliteratur, secondo la celebre definizione fornita da Goethe.
Nella lettura di Dante, Tasso, Leopardi, Manzoni e Pascoli, pertanto, si avverte il tentativo di mettere in luce l’ambiguità e la contraddizione che caratterizza il discorso poetico. Il titolo del volume, il quale rinvia al verso «Quante rose a nascondere un abisso!» tratto dal Secondo congedo di Umberto Saba, si muove in questa direzione: esso, infatti, illustra «l’ambigua funzione della poesia» (p. 15), da sempre considerata da Fortini sia documento di civiltà sia documento di barbarie.
Il metodo di lettura proposto dall’autore, giustificato anche dal contesto in cui ha avuto origine il volume, prevede non l’introduzione all’autore e alla sua opera, bensì un’analisi preliminare di uno o più versi per delineare, in seguito, «la materia storico-ideologica e il linguaggio degli autori» (p. 16); in altri termini, si tratta di una proposta interpretativa che, originandosi dal particolare, mira a ricostruire l’universale che lo ha determinato.
Sin dal primo dialogo, incentrato sulla produzione e sulla ricezione dell’opera di Dante, si manifesta la volontà di leggere le opere del passato con uno sguardo attento al presente e al contempo rivolto al futuro. Decisiva in questo incontro fra temporalità differenti è la lettura di Auerbach, in particolare l’interpretazione figurale consente a Fortini di cogliere un aspetto essenziale, ovvero la capacità e la possibilità che Dante «parli di noi e non soltanto del suo tempo» (p. 19). L’esercizio critico messo in campo da Fortini, inoltre, prevede il coinvolgimento della propria esperienza poetica e saggistica, alla ricerca delle tracce e degli echi del passato che riaffiorano nella sua produzione. Relativamente al caso di Dante, emerge sì un cospicuo numero di citazioni e riprese dantesche nella poesia di Fortini, tuttavia la sua attenzione si sofferma su un dantismo «più profondo che spesso si nasconde […] in fatti solo ritmici o sintattici» (p. 26), il quale prevede altresì l’assunzione di elementi della cultura del Duecento e del Trecento giunti attraverso Dante, dei quali cioè il poeta «si fa tramite» (p. 27).
Le conversazioni sui classici hanno spesso origine dalla rievocazione di episodi legati alla biografia di Fortini: l’incontro con Dante e con Tasso, ad esempio, avviene negli anni della formazione fiorentina e per taluni aspetti assume il carattere di un’opposizione rispetto a una cultura all’epoca dominante. Nella Firenze degli anni Trenta Fortini matura il suo interesse per Tasso e per il manierismo tassiano, il quale tra l’altro conduce il giovane poeta a comporre delle imitazioni di madrigali tassiani. Le riflessioni sulla produzione letteraria di Tasso, intervallate dalla lettura di ottave tratte dalla Gerusalemme Liberata, mettono in luce la forte componente musicale del poema, alla quale si affianca un flusso narrativo, talvolta ai limiti del prosastico, che porta Fortini a definire il poema un «romanzo storico» (p. 48). Il movimento lineare, che prevede un inizio, uno svolgimento e una fine nella narrazione delle vicende, si contrappone a un movimento «elicoidale», che sempre più si stringe attorno alla città di Gerusalemme, assediata dai due eserciti, i quali, secondo la lettura fornita da Sergio Zatti, incarnano due sistemi valoriali antitetici. La contrapposizione dei due mondi riflette, come notato da Fortini, la profonda lacerazione di Tasso: egli è attratto dall’«universo del piacere», ma esso è intimamente pervaso da «un sentimento di colpa e di nostalgia» (p. 65).
Anche la lettura leopardiana ha origine dal ricordo di un saggio fortiniano apparso nel 1946 sulla rivista «Il Politecnico», nel quale l’autore invitava a prendere sul serio le verità della poesia di Leopardi, superando l’interpretazione “bianca” o sublime del poeta di Recanati. Il contributo del 1946, come ricordato da Fortini, ha avviato una «lunga revisione» dei modi di lettura dell’opera leopardiana, ampiamente sviluppata in seguito da Cesare Luporini e Sebastiano Timpanaro. Con quest’ultimo, definito un «maestro» (p. 73), Fortini dialoga sul finire degli anni Sessanta: in particolare, viene qui rievocata la pubblicazione di Classicismo e Illuminismo nell’Ottocento italiano, alla quale segue l’intervento fortiniano, Il passaggio della gioia, pubblicato prima su «Quaderni piacentini» e poi confluito in Verifica dei poteri. Pur accogliendo l’interpretazione materialista fornita da Timpanaro, Fortini esprime qualche riserva nei suoi riguardi: la poesia, infatti, non può essere separata dalla sua forma né ridotta a contenuti filosofico-morali; ciò, tuttavia, non implica il ritorno alla distinzione crociana di poesia e non poesia, bensì significa cogliere l’intima contraddizione che è propria del testo poetico.
L’attenzione critica di Fortini, inoltre, si rivolge a testi meno consacrati, come emerge dalla lettura delle Sepolcrali di Leopardi o dallo studio di alcune varianti presenti nella produzione del Manzoni lirico, al quale l’autore – come rievocato nel corso delle conversazioni radiofoniche – si avvicina grazia alla mediazione dell’amico e critico, oggi ingiustamente dimenticato, Angelo Romanò negli anni in cui i due facevano parte del gruppo «Officina». La prospettiva interculturale di cui si è discusso all’inizio è evidente da un saggio intitolato Il contadino di San Domingo, incentrato sulla ricostruzione della storia di una variante presente nella Pentecoste, sulla quale Fortini ritorna nel dialogo con Santarone. In una versione dell’inno risalente al 1819 compare il «coltivatore d’Haiti», affiancato «ai combattenti per l’indipendenza sudamericana e ai patrioti polacchi e irlandesi» (p. 92). Vi sono, nelle strofe lette da Fortini, esplicite allusioni a paesi privati dell’indipendenza nazionale, le quali portano l’autore ad affermare che «c’è, per Manzoni, una chiara vicinanza tra lo Spirito Santo e lo spirito della libertà nazionale» (p. 93). Nella redazione definitiva della Pentecoste, tuttavia, questi riferimenti scompaiono: si verificano cioè nel 1820 e nel 1821 degli avvenimenti politici che portano Manzoni a intervenire sul testo, espungendo alcuni elementi. L’attenzione per le varianti manzoniane, ravvisabili anche nella stesura dell’Adelchi e della Storia della colonna infame, dimostrano come l’incontro con la Storia determina dei profondi rivolgimenti nella stesura di un testo; anche la lettura della produzione di Manzoni, pertanto, conferma la predilezione per un metodo interpretativo che muove dal particolare di un verso per ricostruire l’universale storico-politico che lo ha generato.
A chiudere le conversazioni radiofoniche con Santarone, infine, vi è Pascoli, un autore apparentemente lontano dalla sensibilità fortiniana, al quale tuttavia egli si avvicinò sin dai primi anni della sua formazione scolastica. In particolare, ad affascinare Fortini fu il Pascoli «socialisteggiante, umanitario e cosmico», scoperto e letto insieme a Dostoevskij e ad alcuni autori francesi, quali Hugo e Michelet. Dialogando attorno alla poesia pascoliana, tuttavia, riaffiorano sulla pagina i ricordi dell’esperienza di «Officina», il cui primo numero risalente al maggio 1955 si apriva con un celebre saggio di Pasolini dedicato a Pascoli, qui raffigurato come «un ossesso diviso fra una sorta di ostinazione psicologica e una volontà di tendenza» (p. 120), nel quale Fortini riconosce in parte lo stesso Pasolini.
Le letture che Fortini offre di alcuni classici si configurano come un attraversamento della storia della letteratura italiana, condotto da una specola particolare, che privilegia – come ribadito più volte – la dialettica tra particolare e universale, rifiutando l’ideologia dello specialismo accademico. L’analisi di casi specifici, pertanto, non si limita a una sterile indagine sul discorso letterario, bensì stabilisce e si fonda su un dialogo tra modi interpretativi differenti, il cui obiettivo è ricostruire anche la storia di come la poesia è stata letta nel corso dei secoli dalla critica. I classici letti da Fortini, inoltre, parlano di noi, possiedono una validità per il presente e, similmente, possono prefigurare l’esistenza di un futuro più armonioso, a patto che si scongiuri il rischio di una loro museificazione; in altri termini, siamo di fronte a una lettura e una visione del classico dal valore spiccatamente politico.
1 F. Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, a cura di V. Abati, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 489.