
Ma per parlare di Fausto e delle sue canzoni, che ne costituiscono il suo dato pubblico e culturale più significativo e duraturo, bisogna fare una breve premessa su cos’è stato Cantacronache. Fu un’avventura politica e musicale degli anni Cinquanta come ebbi a scrivere in un libro,1 il cui sottotitolo è appunto quello di un’avventura che s’intreccia con la politica, la critica sociale e la musica del tempo.
«Era il 1958 – scrivevo – e fu un anno in cui avvennero nel mondo fatti esplosivi: il generale de Gaulle prese il potere in Francia, morì Pio XII e venne eletto Papa Giovanni XXIII, a Cuba vinse la rivoluzione di Fidel Castro e si avviò quel processo di distensione internazionale che cominciò a incrinare le barriere della Guerra fredda. In Italia fu un anno di elezioni, che furono vinte ancora una volta dalla Democrazia Cristiana, che si era presentata come il partito del “progresso senza avventure”; nel contempo era iniziato il boom economico e con esso l’esodo dalle campagne e una gigantesca emigrazione dal sud verso il nord del paese. Il 1958 è anche un anno chiave nella storia dell’industria musicale italiana». È infatti in quell’anno che si affaccia la televisione, che spazza via la vecchia guardia della canzone all’italiana per imporre personaggi come Dallara e Celentano, mentre appaiono Modugno e i primi esponenti della scuola genovese, Bindi e Paoli, e nasce a Torino il movimento di Cantacronache. Se rileggiamo oggi quanto affermavamo una trentina di anni fa, possiamo cogliere le tracce della nostra ingenuità e delle nostre illusioni, insieme all’entusiasmo che accompagnava la realizzazione di un progetto e all’attenzione ai valori della sinistra di quel tempo, anche nel campo della musica leggera.
E infatti scrivevamo:
È utile, per situare e contestualizzare Cantacronache e la figura di Fausto, ricordare come è stata vissuta la presenza di Cantacronache tra gli intellettuali del tempo. Massimo Mila, con la sua solita verve, scriveva: «un gruppetto di musicisti e di scrittori si è proposto di fare qualcosa per sollevare la canzone in Italia a un livello decoroso. Questo non significa certo che essi vogliono scrivere canzonette in stile di poesia ermetica o di musica dodecafonica. Sono uomini di cultura, ma giovani e vivi, e uno dei principali problemi che allora si è posto in questo esperimento è appunto quello di essere facili e alla portata di qualunque comprensione. Ma essere facili non vuol dire essere deficienti e puerili. Il rinnovamento che essi si propongono è soprattutto di costume e di contenuti e solo in conseguenza può diventare anche un argomento di modi musicali e poetici».
Franco Antonicelli ne tratteggiava la genesi e il percorso delle canzoni: «sono nate nell’inverno e nella primavera del 1958, furono cantate in case di amici, in sedi di associazioni dai loro stessi autori. Questo movente e questi espedienti giullareschi sono stati insieme una trovata genuina, una ragione della loro freschezza, della realizzazione non mediata. Non escludiamo che le canzoni di Cantacronache abbiano una forte impronta culturale, qualcosa di ricercato e ritrovato nella cultura, persino qualche piccolo ingrediente letterario». Ferruccio Parri invece ne sottolineava l’aspetto resistenziale: «arriva ora la nuova Camerata torinese. Ancora piccola, fresca e sincera e giovanile, di spiriti spregiudicati e insieme sorvegliati, che fa onore alla capacità di rinnovamento della vecchia Torino. Non so se darà i frutti illustri dell’antica camerata fiorentina, so che ha già elaborato indicazioni di grande interesse, e già è legittimata per la loro opera la speranza e l’augurio. Questi “neoteroi” della Resistenza sono al di là delle forme e delle norme convenzionali e ripiegandosi sulla lotta di Liberazione che sentono viva alle loro spalle, possono cercarle una voce nuova».
E Maurizio Corgnati scriveva: «Lì per lì ci viene difficile pensare ad Amodei alle prese coi problemi concreti dell’architettura più avanzata, ma noi siamo convinti che Amodei sia un piccolo uomo della Luna o, perlomeno, se proprio non vi è nato, egli sulla luna almeno c’è stato. Con queste provenienze stellari egli guarda la vita grama di ogni uomo, come si può tirare avanti se non si ha perlomeno qualcosa da aspettare».
Di Cantacronache Fausto divenne una figura centrale, come il creatore di una canzone tutt’affatto personale, di ampio respiro, ironica e tagliente, con una sua cifra e una sua specificità letteraria e musicale rispetto alle altre canzoni del gruppo. E da quella tarda primavera 1958 si susseguirono i concerti-conferenza nei luoghi più disparati: teatri, cinematografi, circoli culturali, sezioni di partito, sedi sindacali, sale da ballo, piazze, salotti, comizi, per mezza Italia, mentre le canzoni spaziavano tra i fatti di costume (le dive, i teddy boys, i juke box), le ideologie di quegli anni, gli amori facili o difficili, le elezioni politiche, i morti nei luoghi di lavoro e quelli per i fatti di Reggio Emilia nel 1960, le ingerenze della Chiesa nella vita politica, le sofisticazioni del cibo, la memoria della Resistenza. Ne conseguirono effetti di qualche rilievo nell’ambito della musica leggera e anche nella vita di ciascuno di noi: non avemmo mai un ascolto di massa, ma da noi nacquero i cantautori, ed una generazione della sinistra si nutrì dei nostri canti; taluni continuarono a comporre canzoni e altri diventarono degli studiosi dell’oralità popolare, con particolare attenzione a quella di contenuto politico-sociale, e ciò avvenne per una singolare situazione di cortocircuito e di baratto. La circolazione delle canzoni di Cantacronache nel mondo operaio e contadino, al di fuori dei mezzi di comunicazione di massa, in luoghi come i quali circoli ricreativi, le sezioni di partito, le sedi del sindacato, le feste popolari, rappresentò un punto d’incontro e di dialogo con gli ascoltatori e creò un effetto sorprendente e inaspettato Le nostre canzoni infatti determinarono l’emersione dalla memoria degli ascoltatori e la restituzione a noi di un vecchio canto, quello che de Martino chiamò “il folklore progressivo”, vale a dire il “dramma collettivo vivente del mondo popolare in atto di emanciparsi, non solo socialmente ma anche culturalmente”. Gli ascoltatori più anziani cominciarono così col barattare le nostre canzoni con le loro più antiche canzoni di lavoro, di lotta, di contestazione e di vita della tradizione socialista e anarchica e di quella folklorica di fondo. Fu così, che nel 1962, Cantacronache si concluse, o meglio mutò volto, sia a seguito della nostra rottura ideologica con Italia Canta, società discografica di proprietà del partito comunista, sia per un naturale affievolirsi dello spirito creativo del gruppo. Così esso si scisse; sopravvisse per un certo verso con Fausto Amodei e Michele L. Straniero, che continuarono a scrivere canzoni per il gruppo milanese del Nuovo Canzoniere Italiano, e per l’altro verso mutò direzione con Jona e Liberovici, che, stimolati dal baratto suscitato dalle canzoni di Cantacronache, si dedicarono attivamente alla ricerca e allo studio dell’oralità popolare, sociale e politica non solo italiana.
Dentro quest’aura e in questo clima operò dunque Fausto Amodei. La sua figura, tranne una breve esperienza politica come deputato del Psiup (il Partito socialista di unità proletaria) si consolidò nel tempo come quella di un significativo cantautore, consacrato alla fama soprattutto da una canzone, Per i morti di Reggio Emilia, che conquistò un’immensa popolarità, che dura tutt’ora, quale esemplare espressione e rappresentazione di un diffuso sentire comune su quell’anno emblematico.
Il rapporto tra la canzone di Fausto e la sua figura umana è molto stretto, nel senso che la sua canzone rappresenta una significativa integrazione tra una descrizione sapida, ironica, dei vizi della società italiana del tempo e insieme un inconsueto ritratto personale del suo autore. Infatti, se scorriamo i testi delle sue canzoni e ne estrapoliamo i contenuti più significativi, la figura di Fausto sorge limpida ed esaustiva nei suoi tratti più personali di lingua, ironia, critica sociale e politica, strettamente legata alla sua sensibilità e ai suoi umori più caustici e insieme affettivi, tanto da costituirne il suo ritratto. Però prima di dedicarci ai contenuti delle sue canzoni è indispensabile premettere qualche considerazione sulla loro struttura musicale. Tranne un’occasionale presenza di musicisti come Carpi, Santi, Bucchi e Manzoni, tutte le musiche di Cantacronache sono o di Liberovici o di Amodei. Liberovici era un vero musicista, autore di opere, di musiche di scena e di balletti, mentre Fausto si definiva come un dilettante privo di specializzazione e dedito a un “rilassato eclettismo”.
Egli diceva di sapere quale musica voleva comporre e qual era il suo background: «io da parte mia avevo, in chiave molto più “collezionistica” un repertorio di riferimento sincretico (ed anche un poco selettivo) che andava da Georges Brassens, con quella sua irresistibile koiné musicale che fondeva le rondes enfantines con Django Reinhardt e il Club de France (le prime eseguite con gli articolati giri armonici, le quinte aumentate, gli accordi di nona e tredicesima del secondo), al canzoniere cow-boy – con tutti i suoi derivati semimodali della tradizione irlandese e scozzese, – all’ampio panorama francese degli chansonnier da Béranger a Boris Vian, cui si aggiungevano, in sordina ma non troppo, i canti della SAT e i primi (per allora) echi della canzone napoletana “storica”.
Inoltre, mentre Liberovici leggeva i motivi popolari armonicamente, a volte come puri e semplici canti monodici o con giri armonici ridotti all’osso (tonica-dominante o poco più), Amodei – «dilettante con il complesso di risultare un poco esperto strimpellatore» – era più propenso a leggere armonicamente gli stessi motivi con un’articolazione molto più complicata in un ribollire di passaggi in relativa minori, accordi di dominante, minori di sesta e così via.
Se ora entriamo nel vivo della sua ricca produzione, Il ratto della chitarra appare come un esplicito manifesto della sua personalità, della sua posizione culturale e sociale e dei valori in cui credeva. Fausto narra di una chitarra che gli è stata rubata, ma non pensa di avvertire la questura, perché il suo strumento in quell’ambiente non è amato, anzi è un po’ malvisto, ed è stato perfino schedato come chitarra comunista, solo perché canta versi insoliti in barba alla censura, si batte contro i ladroni e i potenti, esprime senza timore argomenti d’amore, è libera e non illibata, ma concede i propri favori soltanto se è innamorata, e infine ha una sola ambizione, quella di accompagnare la musica della rivoluzione. E poi, aggiunge Fausto in un’altra canzone, è una chitarra che canta senza darsi importanza, alle cose tristi lascia un po’ di speranza mentre le cose allegre le rende un poco tristi, proprio come è la vita di ogni povero cristo.
In un’altra canzone che s’intitola La ballata dei dittatori, contesta i tiranni i generali, i marescialli e gli imperatori, come uomini del destino che si credono forti, saggi e scaltri e invece sono privi di spessore umano e attorno a cui gli oppressi di questo mondo un giorno faranno un girotondo e suoneranno tamburi e trombe sopra le loro tombe.
In Il censore, invece, Fausto si oppone al tutore della pubblica morale, che vede il male anche dove non ce n’è, mentre Le cose vietate sono tante, prevalentemente inutili, come “vietato affacciarsi, divieto di transito ai ciclomotori, vietato il posteggio, vietato bagnarsi, vietato parlare ai manovratori”, ma fra tanti divieti di tutti i modelli manca però quello di far la guerra alla povera gente o di andare a uccidere i propri fratelli.
In Ero un consumatore si raccontano le disavventure di un cittadino senza ubbie, ligio alle lusinghe dell’informazione pubblicitaria; egli condisce l’insalata con un olio d’oliva apparentemente genuino, che è invece olio di somaro, mangia capponi che sono costruiti con gli ormoni, abita in un appartamento in cui l’impresa, per ridurre la spesa, ha messo anziché cemento, gesso, e quindi crolla, per cui, disperato, il consumatore cerca conforto nella religione, ma persino l’acqua benedetta è inquinata da un’acqua sconsacrata e quando cerca riparo nella morte, anche la stricnina è adulterata e gli procura solo una triste diarrea. C’è poi una canzone, Il tarlo, che piaceva particolarmente a Umberto Eco, il quale la considerava una perfetta e spiritosa metafora del capitalismo e del plusvalore. Si tratta di un tarlo di discendenza nobile che comincia a mangiare un vecchio mobile e che avanza «con i denti per avere da mangiare / e mangia a due palmenti /per avanzare”, dove “il proverbio che il lavoro/ ti nobilita col farlo/ non riguarda solo l’uomo/ ma pure il tarlo». Poi il tarlo passa dal lavoro individuale al lavoro collettivo, assolda altri tarli e impara a sfruttare il loro lavoro che trasforma in una efficiente struttura tayloristica, realizzando a loro spese un favoloso plusvalore.
Fausto compose una sola canzone su un testo di Franco Fortini. S’intitolava Canzone della marcia della pace e fu scritta, credo, per la prima marcia da Perugia-Assisi, svoltasi il 24 settembre 1961, e fece parte di quel breve, ma intenso rapporto che Cantacronache intrattenne con Franco. Ricordo che avemmo con lui un memorabile incontro nella sua casa di Bocca di Magra nell’estate del 1958, al nostro ritorno in massa dal Premio Viareggio che ci aveva assegnato un prezioso premio, come creatori della nuova canzone. La canzone non ebbe, a mia memoria, particolare fortuna, ma circolò in quelle marce a cui parteciparono centinaia di migliaia di persone. Ricordo una fotografia di Fausto con la chitarra in quella marea di folla, tra cui c’era probabilmente anche Fortini. Lui, per altro, scrisse alcune tra le più incisive canzoni di Cantacronache, da Fillette Filette, a Novembre Lombardo Veneto, dall’Inno nazionale a Tutti gli amori. Il testo della canzone pacifista era molto fortiniano, seccamente politico, di essenziale linguaggio brechtiano, severamente moralistico, pienamente nell’aura del nostro movimento, diceva:
ditele che s’impicchi
crepare per i ricchi
no! non ci riguarda più.
E se la Nato chiama
ditele che ripassi:
lo sanno pure i sassi
non ci si crede più.
Se la ragazza chiama
non fatela aspettare
servizio militare
solo con lei farò.
E se la patria chiama
lasciatela chiamare
oltre le Alpi e il mare
un’altra patria c’è.
E se la patria chiede
di offrirgli la tua vita
rispondi che la vita
per ora serve a te.
Per concludere, credo che Qualcosa da aspettare concorra a rappresentare un altro aspetto della sua personalità, la sua tenerezza, il suo candore con la sua quieta piccola attesa di un domani probabilmente impossibile. La canzone è molto bella, soffusa, di una dolcezza un po’ amara, con tuttavia un’irriducibile speranza. È sera, si sentono i rumori delle serrande che si abbassano, delle macchine che passano, c’è una luce di lampioni, è stato un giorno di lavoro e la gente torna a casa stanca, ma bisognosa d’amore, si tiene per mano, aspetta qualcosa che non avviene, ma spera che avvenga l’indomani. Oppure è domenica, e c’è un uomo che guarda le gocce che ristagnano sul vetro mentre torna ancora la sera, lui è stato chiuso nel ventre di un cinematografo, poi in una balera, quindi nel buio di una stanza e sente di aver perduto ancora una volta il suo giorno di vacanza, ma gli resta tuttavia il pensiero dell’attesa, la speranza che ci sarà un domani in cui quell’attesa avrà fine.
A me piace pensare che questi pensieri ora malinconici, ora caustici e ironici, ma pacati sul mondo, questi giudizi severi sui vizi del nostro tempo, questa passione civile, che ci consegnano il canto e la parola di Fausto Amodei possano accompagnarci, e che ci accompagneranno, al di là della sua morte.
1 Cantacronache, DDT Scriptorium associati, 1995; e G.B. Paravia e C., 1996.
2 Cantacronache cit., pp. 21-22.