
Ha del prodigioso, quello che accade nella drammaturgia russa all’indomani dell’Ottobre e prima che il Terrore agguanti il neonato stato sovietico: mai come in questo breve arco di anni arte scenica e pittura, musica e fotografia, poesia e cinema si compenetrano, in un fervore ideale che pervade ogni occasione in cui il teatro ritorna sugli episodi più salienti della storia recente o immagina le utopie ancora da realizzare, mettendo in scena La presa del Palazzo d’Inverno o il percorso Verso la comune mondiale.
E soprattutto, tra il 1917 e il 1924 l’arte si riversa nelle strade, invade gli spazi urbani e fa di ogni cittadino un protagonista, in un immenso processo collettivo di reviviscenza dei fatti rivoluzionari come dell’intero destino del paese. Fondamentale in questo processo il ruolo della satira: portando sui palcoscenici e nelle piazze lo scontro tra vecchio e nuovo mondo, tra capitalismo e comunismo, l’ambizione è quella di riscrivere le regole del divertimento collettivo, attingendo in questo a piene mani a un fenomeno dalla tradizione antica e venerata (anche se invisa, per la sua carica dissacrante, alla Chiesa ortodossa), ovvero il balagan, il baraccone di spettacoli popolari zeppi di mascherate, pantomime e attrazioni da fiera.
Se i profeti più acclamati del nuovo corso teatrale – da Mejerchol’d a Stanislavskij, da Vachtangov a Tairov e Evreinov – hanno ricevuto nel secolo intercorso nel frattempo adeguata attenzione in Italia, in particolar modo grazie ai pionieristici, illuminanti studi di Angelo Maria Ripellino, esiste tutta una pirotecnia “minore” degna di altrettanta premura critica che quella stagione così carica di deflagrazioni rischia di oscurare. Nel suo corposo lavoro, Antonella d’Amelia racconta il mondo teatrale in febbrile divenire di quegli anni mettendo a fuoco fisionomie più o meno dimenticate e disseppellendo rappresentazioni che ci appaiono oggi straordinarie, ogni volta riportando in luce la fitta trama che lega il rinnovamento della scena russa alla dimensione del balagan. E realizzando non da ultimo un caloroso omaggio proprio a Ripellino, al suo magistero, alla via da lui additata tanto tempo fa e da lei seguita lungo l’arco di una vita di proficue ricerche.
L’autrice entra ed esce dalle biografie dei suoi protagonisti radunando notizie poco note e sviluppi dietro le quinte, ridando vita agli effetti scenici dei singoli allestimenti e lasciandosi appassionare dai più fecondi intrecci di arti in essi intervenuti, lumeggiandone gli agganci alla tradizione ottocentesca o le suggestioni di diretta ispirazione europea, senza tralasciare gli echi suscitati negli spettatori e nei critici, le loro ripercussioni a distanza.
Il volume è costruito per “finestre” che – precedute da tre pezzi di carattere più generale deputati a offrire le coordinate necessarie per inoltrarsi nella ricerca – si aprono una dopo l’altra a curiosare con estro e sapienza dentro le esperienze di un gran numero di figure, movimenti, trasposizioni.
Innanzitutto uno scorcio sulla Pietrogrado di quegli anni, contesa tra Rivoluzione e Controrivoluzione, tra fame e gelo, sinistra, desolata, che inaspettatamente sbalordisce come “città-teatro”, palcoscenico pulsante di accadimenti teatrali capaci di trascinare i suoi abitanti fuori dalle loro grame pareti domestiche. Una nutrita galleria di testimonianze o sequenze letterarie russe, montate con gusto da narratrice e un alto tasso di empatia, viene giustapposta ai reportage dei visitatori occidentali avventuratisi nel paese dei Soviet – tra loro Herbert Wells, Joseph Roth, Walter Benjamin, Emma Gol’dman – in un controcanto europeo che arriva talvolta a «smascherare i “villaggi Potëmkin” della propaganda».
Poi un excursus chiamato ad approfondire i modi in cui l’impegno propagandistico si incontra con il teatro, giacché «tutto sembra possibile in questi primi anni del potere bolscevico: cambiare repertorio, attori, testi. Rifondare lo spazio scenico, reinventare il linguaggio teatrale» (cruciali da questo punto di vista i terevsat, i teatri della satira rivoluzionaria che con i loro collettivi portavano brevi spettacoli «nei diversi quartieri e nelle fabbriche, senza costumi, con attrezzi poveri e spostabili»). Infine una rassegna dei più curiosi e vivaci spazi in cui tra Mosca e Pietrogrado prende dimora la sperimentazione teatrale a metà «tra numeri di varietà e impegno politico»: caffè letterari, cabaret, taverne, teatrini di miniature – sulle tracce del senso custodito da quelle realtà.
Se già a inizio secolo i pittori russi scoprivano attrattive e potenzialità dei palcoscenici per le loro espressioni artistiche, è in questi anni che il fenomeno si fa ricorrente. D’Amelia ripercorre le ben argomentate, originalissime scorribande in ambito teatrale in veste di regista e scenografo del pittore e grafico Jurij Annenkov, che emigrerà in occidente nel 1924. Meno appagante, per quanto memorabile, la “storia d’amore” intrattenuta da Marc Chagall col teatro, tra Vitebsk e Mosca, nonostante gli sforzi inesausti da lui profusi. I suoi pannelli sorprendenti – che ingigantiscono dipinti fatti (nelle sue parole) di «agguati di colori. Arte liquida fiammeggiante. Impeto di quadri appena nati. Teste, membra disgiunte, vacche volanti» – non mancano di suscitare le perplessità dei vertici politici per quella sua «Russia fantastica e poetica, abitata da innamorati trasognati, spazi contadini, animali irreali, musicisti, figure circensi, visi ebraici dello shtetl. Una Russia fuori del tempo, religiosa e popolare, mistica e bizzarra».
Ma è soprattutto sui registi che l’autrice appunta la sua attenzione. Rievoca sviluppi e trovate di due tra i più brillanti allievi di Mejerchol’d, entrambi profondamente infatuati del balagan e attivi a Pietroburgo: il primo è Sergej Radlov, con le sue inscenirovki di massa governate da un agguerrito pensiero teorico, massimamente ostile alla tradizione («un attore-improvvisatore aiuterà il teatro a uccidere quella malvagia creatura che è lo scrittore, che nel silenzio del suo studio scrive parole per il teatro»), e le successive rimeditazioni in chiave emozionalista, sulla scia di Michail Kuzmin, fino alla discussa messinscena nel 1925 della distopica Società degli onorevoli suonatori di Evgenij Zamjatin e al drammatico epilogo biografico costituito dai dieci anni da lui trascorsi nel lager. Altro sperimentatore versatile e spericolato è Nikolaj Petrov, che mette in scena vaudevilles e farse nonché spettacolari azioni di massa, allestisce Wilde e Gor’kij, Shakespeare e Lunačarskij, non senza entusiastiche incursioni nella cinematografia.
A Mosca opera con successo Nikolaj Foregger, che pure si rifà a una matrice mejerchol’diana, ma con una decisa virata verso la parodia, per la quale attinge a piene mani alle risorse farsesche del balagan e alle pantomime circensi, convinto come è che «teatro e circo sono fratelli siamesi». A essere presi di mira nel suo repertorio satirico sono tanto i teatri accademici quanto i palcoscenici sperimentali, e Foregger porta in scena una Fetra (Fenomenal’naja tragedija) per ironizzare sulla Fedra di Tairov, mentre La fidanzata dello zar di Rimskij Korsakov nelle sue mani diventa La suocera dello zar. Negli allestimenti da lui diretti il teatro incontra poi l’officina: le sue Danze delle macchine «stilizzano nei movimenti acrobatici degli attori e in uno sferragliare di sibili e stridori il ritmo dei congegni industriali, il dinamismo dei processi produttivi, talora il macchinario stesso», in una «estetica industriale» di stampo europeo ma piegata a esaltare l’industrializzazione del giovane stato sovietico – e allora l’ispirazione da music-hall viene ribattezzata agit-hall e colorata di slogan politici.
D’Amelia non manca di mettere a fuoco la formazione teatrale di alcuni registi di cinema che precede e feconda le loro successive esperienze nell’ambito della settima arte, come nel caso di Grigorij Kozincev e Leonid Trauberg: le loro stupefacenti messinscene, fitte di provocazioni da balagan e momenti circensi, si riverberano nel laboratorio teatrale fondato nel 1922, la Feks – acronimo che sta per Fabbrica dell’Attore Eccentrico – e sono inscindibili dai proclami teorici espressi nel Manifesto del teatro eccentrico, di poco precedente, il quale si batte per «un’arte senza maiuscola, senza piedistallo, senza foglia di fico», e chiede di rivitalizzare i classici (ne è un emblematico esempio l’«elettrificazione di Gogol’» con cui viene portato sul palcoscenico il suo testo ottocentesco Il matrimonio).
Anche gli inizi di Sergej Ejzenštejn sono teatrali: dopo gli spettacoli ideati al fronte nel 1919, l’anno successivo diventa scenografo e regista del Proletkul’t, e le sue sperimentazioni di genio confluiscono in allestimenti indimenticabili – quali Il messicano, rilettura rivoluzionaria ispirata a un racconto di Jack London, e la agit-buffonada intitolata Il saggio, che rivisita Ostrovskij – o portano sulla scena spunti propagandistici, come in Ascolti, Mosca? e Maschere antigas.
L’impressione è che da Majakovskij tutto si diparta, o comunque intorno a lui si aggrumi e prenda potentemente forma una parte cospicua di quell’irripetibile vortice di eventi teatrali e artistici: suoi sono i versi che decorano agitpoezdy e agitparachody (i treni e battelli di propaganda) tra il 1918 e il 1921, e quando Mejerchol’d porta in scena nell’ottobre del 1918 «la prima pièce sovietica» si tratta del suo Mistero Buffo, «manifesto-poetico-teatrale» della Rivoluzione e prototipo di ogni azione scenica “impegnata” successiva oltre che epitome, al contempo, delle tecniche e dell’immaginario popolare che nel balagan avevano trovato espressione. A quella fonte si abbevera il poeta con le proporzioni mastodontiche delle sue visioni, la loro schematicità e irriverenza, i funambolismi verbali. Majakovskij scrive pezzi satirici per Foregger e collabora alla stesura di testi per il gruppo teatrale amatoriale Sinjaja bluza (La blusa azzurra), che esordisce nel 1923 e col suo «giornale parlato» incarna una delle forme di maggior impatto del teatro per il popolo nella Russia appena uscita dalla Rivoluzione. Quel genere di spettacolo «anima le parole della carta stampata in un’azione scenica dialogata con il pubblico, trasmette resoconti dell’attualità, commenti sulla vita quotidiana o politica: la lotta all’analfabetismo e all’alcolismo, le facoltà operaie, il nuovo byt sovietico, i programmi di industrializzazione del paese». Non per nulla a lui (e a Mejerchol’d) è dedicato il capitolo finale del volume, che tira nuovamente le fila sul suo incommensurabile contributo allo sviluppo della drammaturgia satirica sovietica.
Le immagini scelte per accompagnare questo enciclopedico quanto arioso attraversamento convogliano una messe di ulteriori suggestioni: caricature e ritratti pittorici o fotografici dei protagonisti del tempo, stampe antiche, rarissimi manifesti degli spettacoli, scatti ufficiali o fotogrammi che catturano momenti dell’azione scenica (tanto di esterni affollati fino all’inverosimile quanto di intimi interni dalle salette affrescate). Una strepitosa carrellata di riproduzioni a colori di scenografie e bozzetti dei protagonisti delle arti del tempo è radunata quasi al centro del libro, ad aggiungere incanto visivo a una narrazione intorno al teatro come «scatola delle meraviglie». Sempre condotta nel nome di Ripellino.