La campana sta suonando per noi, e da un pezzo
Un sottile rumore di fondo nell’ottantesimo anniversario della pace mondiale (sic): il caso della guerra in Iraq e La scatola del signor Hulford (2015) di Giorgio Taschini
Luciano Curreri

I.

La guerra in Iraq del 2003-2011 non è stata, almeno nella durata e nella deriva, una seconda guerra del Golfo. La prima (1990-1991), del resto, me la ricordo bene, anche perché all’epoca, da giovane e ultima ruota del carro, scrivevo brevi per il radiogiornale di Radio Torino Popolare (1982-2009).1 Ai nostri giorni, per comodità di narrazione, tendiamo ancora a unirle, ma faremo bene a darci un taglio a questo “arrangiamento da manuale”. E non soltanto per l’11 settembre 2001 e la lunga risposta, la vendetta USA, l’invasione americana dell’Afghanistan (2001-2021) e le leggi antiterroristiche che colpiranno soprattutto un’altra etnia: un’etnia che noi abbiamo fatto fatica a pensare e a rispettare come tale, insieme alla sua identità e religione, alla sua storia e geografia, autoattribuendoci un diritto d’istruzione morale e principiando così, a inizio del nuovo secolo e millennio, a dare ancora una volta un bel bacio dell’addio a libertà civili e diritti dell’uomo, grazie pure a quella acquosa e sanguinante “ciliegina sulla torta” che è stata (e forse è) Guantánamo.2

La cito non a caso, Guantánamo, perché a tutte e tutti verranno in mente le foto e i filmini delle torture brutali e volgari, di natura anche sessuale, evocate ormai come «enhanced interrogation techniques» (in italiano tradotte come «tecniche di interrogatorio potenziato» o come «tecniche di interrogatorio rinforzate»)3 e di cui si resero responsabili uomini e donne sorridenti, “in posa”, dell’esercito americano (da Guantánamo a Abu Ghraib, cioè allo «scandalo di Abu Ghraib»).

In effetti, una delle scoperte più clamorose e inquietanti seguite da Giorgio Taschini (1968) in La scatola del signor Hulford (2015), proprio relativamente alla guerra in Iraq del 2003-2011, è relativa alla piattaforma americana «Fucked up», che regalava porno ai militari americani in cambio di foto o video di immagini di guerra, di morti ammazzati ai check point: uno spasmodico e tristissimo scambio di carne, che è l’orrore estremo e quotidiano immaginato e raccontato, conseguenze comprese, da un romanzo che non fa sconti ma che non usa il sesso come espediente per vendere di più o vendere (e vendersi) tout court, magari seguendo quegli stilizzati canovacci in cui figura il numero giusto di scene di morte e di sesso, specie quello caratterizzato da violenza, da stupri e da scambi simbolici di natura patologica e funerea.

Di più. Nel libro di Taschini, non c’è nemmanco quel sesso che ci fa sopravvivere, per dire, alla guerra civile spagnola (1936-39), come succede in qualche romanzo e racconto italiano di fine Novecento e di inizio Duemila dedicato a quel conflitto.4 E, per tornare all’anno di La scatola del signor Hulford, il 2015, non c’è il sesso di quella narrativa inglese che con lo stesso, fin dal titolo, vuole farci dimenticare un’altra guerra civile europea, quella dell’ex Jugoslavia (1991-2001), catapultandoci in Bosnia, a Sarajevo. Penso a Love, sex and other foreign policy goals (2015) di Jesse Armstrong (1970), «surreale commedia sugli idealismi radical chic».5

II.

C’è chi ha parlato di post-colonialismo e/o di neo-colonialismo, prima e dopo la fine del XX secolo e fin dentro il XXI e il nuovo millennio, ma sarebbe bene dire che il colonialismo non è mai stato davvero dismesso. Ha solo assunto altre forme, che i prefissi «post» e «neo» non sono sufficienti a dispiegare nella loro continuità invereconda con il passato. Pensate alla fatica che hanno fatto gli inglesi a (non) liberarsene, ai problemi (e al rancore) dei francesi, per restare nell’Europa dei vincitori della seconda guerra mondiale: l’Europa come la concepiamo ancora adesso, senza la Russia. Già così, del resto, era troppo lunga e penosa – con i finti sensi di colpa, l’erigenda verginità di un “casellario” novello – l’elaborazione del lutto per la vincente e pacifica comunità internazionale occidentale (nemici sconfitti inclusi). La morte del colonialismo nel Novecento dei buoni sentimenti e delle brutte bugie è una delle più grandi ‘furberie-fesserie’ fatte ingoiare all’umanità dal secondo dopoguerra in avanti, specie quando, in diretta o dopo, lo si ascrive tutto all’internazionalismo comunista. E lo si è fatto ancora di recente per la guerra in Ucraina.

Il Novecento pensato come «secolo breve», tra il 1914 e il 1991, è, da questo punto di vista, un paradigma che entra in crisi subito dopo, con la già evocata guerra civile jugoslava del 1991-2001, una più che tragica passerella per transiti secolari molto significativi e di lungo termine. I bombardamenti della NATO su Belgrado, per quanto unilaterali e per niente “chirurgici”, non sono stati processati al Tribunale internazionale dell’Aja, la famosa Corte di giustizia del nostro diritto internazionale, cioè quello che imponiamo con lezioni da maestrini, con acribia filologica degna del restauro di una reliquia, cioè quel diritto che maneggiamo sempre più come una frusta per chi non vuole stare in fila – come capitava agli schiavi indocili nell’antichità – e quasi mai6 come uno scudo a difesa dei deboli.

Abbas Fahdel (1959), cineasta libano-syriano che vive nel Libano meridionale, ha postato sul suo profilo Facebook, nel giugno 2025, sotto il “titolo” L’indécente morale des pyromanes, un testo da cui stralcio: «le droit international est devenu […] une arme de guerre froide dans un monde brûlant. Une vitrine pour les forums diplomatiques, et un cadavre pour les peuples sans alliés». Da qui discende pure la retorica delle guerre preventive (vecchia idea già nazista) che non fanno che nascondere i vecchi conflitti di rapina e occupazione: «Que dire des États-Unis, qui ont réduit l’Irak en cendres en 2003, au mépris absolu de la légalité internationale, sur la base d’un mensonge grossier – celui des armes de destruction massive?».

III.

Ecco, il conflitto in Iraq (quello bello lungo, diceva mio papà, per cui la guerra lampo era una bufala già nel secolo breve) è stato un crogiolo dalla cronologia incerta, un inedito luogo di confluenza. Ed è stata una guerra più urbana, che ha messo in campo una tecnologia più avanzata e un nemico meno statico e più ubiquo, un nemico senza un volto preciso, che si allontanava e si imboscava, un po’ come le cavallerie e i cavalieri antichi, sparsi per le rovine di un mondo in guerra: una realtà sintetizzabile, forse, tra il deserto e ciò che resta della civiltà, della città.

In effetti, anche dal punto di vista urbano, mi è sembrato che ci fosse meno continuità con la guerra del Golfo e molta di più con quel pasticciaccio brutto che sono state le guerre jugoslave nel decennio precedente, tra il 1991 e il 2001, ripetiamolo, ché la cronologia ha ancora un senso: proprio per il rilievo avuto da quelle comunità plurali, multietniche, multireligiose, presenti in quelle città in cui si sono consumati assedi e ritorni di guerre antiche e moderne, rimestate di brutto, mescolate, manipolate, confuse, un po’ come avviene per altre guerre civili. Cambia il «colosseo costrutto per opera ciclopica» in cui ci si dà battaglia, transitando dall’Europa dell’Est al Medio Oriente, ma non mutano certe dinamiche di fondo. Per questo, penso ancora e almeno alla Gerusalemme d’Europa, a Sarajevo, ma anche a Vukovar, Srebrenica, Mostar, Belgrado. E direi che pensare a Belgrado come a Baghdad non è poi così difficile. E sì, su tutto il romanzo di Giorgio Taschini tira un’aria di guerra permanente e di città incendiate, anche a bocce ferme, apparentemente ferme.

Certo, il mio punto di vista è limitato, anche se non è stato del tutto incollato a un solo scranno e schermo, visto il mio girovagare per l’Europa, tra anni Novanta e Duemila. Detto questo, per farsi un’idea del pasticcio che il noto Plan of attack ha generato – lo dico col titolo del libro di Bob Woodward (1943) del 2004 – si può pensare a una disastrosa guerra civile spuria, che si innesta su conflitti preesistenti, cioè almeno sulle tensioni tra gli sciiti dell’Iraq meridionale, i curdi e i sunniti minoritari ma favoriti da Saddam Hussein. E non basta, lo so, ma è soltanto per cercare di capirci. Insomma, mutatis mutandis, non credo si tratti di una «esagerazione» parlare in questo modo di quella guerra, “finita” solo una quindicina d’anni fa, che ai più sembra già lontana e che invece ha lasciato un sottile rumore di fondo nell’ottantesimo anniversario della “pace mondiale” (1945-2025).

Mentre scrivo, quel sottile rumore di fondo è tornato a farsi sentire, in maniera non così ovattata, nella guerra tra Israele e Iran: una guerra lampo per modo di dire, che temo sia comunque una versione titanica (ma deficitaria, senza l’intervento USA quanto meno) di Israele contro tutti: contro quel che (non) resta (e non c’è) della Palestina (la “verginità” che si regalano oggi Macron e Starmer inneggianti allo stato palestinese è la chimera di due sbiadite crocerossine, a cui altre, forse, si aggiungeranno); contro il Libano; contro la Siria… E proprio nel momento in cui la migliore identità israeliana tornava a essere sé stessa in un esilio non percepito più come tale grazie alle coordinate globali e internazionali che hanno nutrito, fino a poco tempo fa, il primo quarto del Duemila. Ma è difficile che «le monde juif» cui alludo giunga a rompere «le front intérieur» (si legga, a proposito, l’articolo del 27 luglio 2025 di Henri Goldman su «le blog cosmopolite»).7

Dietro questo fronte interno (Netanyahu e coloni in testa) pare ci sia ancora, peraltro, quella “buona volontà” che farà vivere più sicuro e tranquillo il popolo tutto (l’impresa della nazione), perché si acquisteranno ampie aree, influenze e si distruggeranno le cosiddette e spesso soltanto ipotizzate armi di distruzione di massa del nemico di turno (ché un nemico lo si trova sempre, come ai tempi del nazifascismo, del «deserto dei Tartari»). Ovviamente, si tratta di conservare e perfezionare le nostre armi, come puro deterrente!

E così si finiscono anche per sentire, un po’ dappertutto, pure in Europa, slogan di un’epoca che pensavamo fosse conclusa e invece conclusa non è, e il cui minimo comun denominatore (parodico) è sempre figlio di un’economia “altruista” che una volta di più ci conferma che basta a sé stessa: «Riarmiamoci e ripartite». E fra qualche anno, invece di spostarci in macchina,8 lo faremo in tank, in carro armato…

IV.

Proviamo ora a parlare per mezzo di una pur facile (se non felice) metafora. In tal senso, direi che il gruppetto di penne accessorie, aggiuntive, con cui la famosa democrazia alata la si voleva far volare – le migliori intenzioni, ammesso e non concesso che non siano soltanto fole, si mescolano alle cattive o lo diventano che è un piacere – è mutato quasi subito in un’unghia rapace, in uno sporco sperone. In effetti, la messa a terra dei monumenti di Saddam e poi dello stesso ha per un attimo unito e fatto dimenticare quello strumentale “capriccio” di natura che – usato, si diceva, per difendersi, per accoppiarsi – stava già arpionando e rapinando, violentando una terra e la sua gente.

Non vedo, per fare un esempio che mi pare di un’evidenza quasi plastica, una grande differenza fra quello che portò via la Germania nazista dalla Spagna durante la già evocata guerra civile spagnola e per tutto il secondo conflitto mondiale e quanto si portarono a casa dall’Iraq gli Stati Uniti repubblicani di George W. Bush – Bush Junior per intenderci – e quelli democratici di Barack Obama in quasi un decennio. Non crederete mica ancora alla favola per cui il mondo è una lavagna e i dittatori stanno con i dittatori dalla parte dei cattivi e i repubblicani e democratici li fronteggiano e osteggiano dalla parte dei buoni?

Franco è restato al suo posto, a comandare i destini degli spagnoli (decideva sostanzialmente chi viveva e chi moriva), fino alla sua scomparsa, nel 1975, sopravvivendo bellamente alla fine della seconda guerra mondiale (in cui era stato neutrale soltanto sulla carta) e a una buona parte della famosa guerra fredda (1947-1989), di cui era, a occidente, una specie di contrappeso di destra (insieme, come è noto, al nuovo Portogallo voluto da Salazar); Saddam Hussein era stato sostenuto proprio dagli americani, nella guerra dell’Iraq contro l’Iran (1980-1988), dopo che un trattato siglato nel 1975 era stato sconfessato… Certo, il fascino della lista, della storia da listino, non basta e si può pure tradurre facilmente in un’immagine che ha finito per farla da padrona, dalla metà dell’Ottocento in su: quella di un mondo a misura dell’economia e dei listini della borsa, rispetto ai quali noi uomini di alterna (e non così buona) volontà siamo ormai solo prodotti e oscilliamo fra alti e bassi di fortunose rotte, di operazioni sospese, di tattiche senza strategia.

V.

Pensate a Donald Rumsfeld che stringe la mano a Saddam nel 1983 quale inviato speciale di Ronald Reagan e poi diventa il teorico della guerra preventiva dei neocon repubblicani e lo stratega dell’attacco in Afghanistan (2001) e poi di quello in Iraq (2003). L’Enduring freedom, la «libertà duratura», in Afghanistan è durata (e si fa per dire) fino all’estate del 2021, poi sono tornati i talebani. In Iraq le è subentrata una guerra civile, catalogata come tale, tra il 2013 e il 2017 ed oggi ancora (e ormai da più di vent’anni, guarda caso) ci si chiede a che punto è l’Iraq. Come ci si chiede a che punto è la Libia, certo.

Ma a che punto siamo noi? Perché siamo schiavi di una volontà di proiettare la guerra lontano da casa quando la guerra è in casa? Eppure lo sapevamo già ieri, grazie, per esempio (ed esempio non banale, mi pare) al lavoro del 1998 di Luca Rastello (Torino 1961-2015) sulle guerre jugoslave sopra citate, intitolato proprio, con scelta azzeccata (e non univoca), La guerra in casa.

Non che ci sia, in Italia, una più diffusa letteratura (anche intesa in senso ampio, bibliografico, inclusivo, quindi creativa e no) sulla guerra civile dell’ex Jugoslavia, ma quel testo di Rastello, insieme al plurale Teatro di guerra. Un diario di Mario Martone (Napoli 1959), dello stesso anno, e ad altri e differenti lavori, pubblicati da Agamben, Bazzoli, Betti-Zaccaria, Janigro, Magno, Navicello, Postorino (e mi fermo), dovrebbero averci comunicato, una volta di più, che è inutile stare a chiedere per chi suona la campana e a che punto si sia diffuso il suo suono nei paesi lontani…

La campana, e da un pezzo, sta suonando anche e forse soprattutto per noi, per noi tutte e tutti. Di più. Siamo responsabili, spesso e volentieri, di molti di quei tocchi. Proviamo quindi almeno ad ascoltarne un’isolata registrazione, del 2015, relativa proprio alla guerra in Iraq: è quella di Giorgio Taschini (Carpi, 1968), affidata a un romanzo davvero notevole, che avevo bucato, La scatola del signor Hulford, pubblicato, all’epoca, dal Saggiatore.

IV.

Giorgio Taschini nasce il 21 giugno 1968 a Carpi, ma solo perché all’epoca, a Correggio, dove la famiglia abitava, non c’era un reparto di ostetricia. Correggio, quindi, poi Bologna e nel 1974 Modena, una città cui ritorna, che ama. Non proprio a caso, si laurea in Storia Contemporanea, a Bologna, con una tesi d’archivio sulla trasformazione urbanistica di Modena tra Ottocento e Novecento, che scava all’interno di quella modernità il cui piano regolatore finiva per decretare l’abbattimento della cinta muraria (bella e imponente come quella di Lucca) e la costruzione di “porte”, a partire da un progetto dell’architetto Frank Gehry (1929). Poi, si diploma pure alla Scuola Holden, nel Master biennale in tecniche della narrazione, e, un po’ prima di toccare il mezzo del cammin, giunge a Roma, entrando nella neonata La7, alla redazione di «Otto e mezzo», il programma, condotto da Gad Lerner (1954) e Giuliano Ferrara (1952), che esordisce davvero in un giorno particolare, l’11 settembre del 2001. Da quel momento, e lo si intuisce facilmente, per Giorgio Taschini, che ora lavora in RAI, l’11 settembre è diventato una vera e propria ossessione, così come poco dopo, nel 2003, lo diventa la guerra in Iraq. Di più. Nello stesso periodo, il Nostro fa la conoscenza di Adib, un iracheno trasferitosi in Italia alla fine degli anni Settanta, quando Saddam Hussein prende stabilmente il potere, deportando peraltro in Iran la famiglia di Adib, che diventa un amico e una fonte: La scatola del signor Hulford nasce in buona parte da questo incontro, dai racconti di come era Baghdad, di come si era trasformata durante la guerra.

A dieci anni dall’uscita del libro, salutato sulle pagine domenicali del «Sole 24 ore» da Vittorio Giacopini (Realismo onirico anni zero, 12.4.2015) e da un saggio di Monica Jansen su «Nuova Corvina» (Il realismo onirico della guerra in Iraq. Il post 11 settembre narrato da Giorgio Taschini, 12, 2015, pp. 228-239), non mi sembra che gli esiti e le derive della guerra del 2003-2011 ci siano stati spiegati meglio, né dalle bufere degli opinionisti né da quella che Jansen evoca, fin dal 2015, come «una ricca memoria culturale internazionale sull’11 settembre e sulla guerra in Iraq». Di più. Penso che un conto sia l’11 settembre 2001, dove gli Stati Uniti, che hanno sempre portato la guerra fuori casa, se la sono trovata in casa e l’hanno chiamata, con sempre più ambigua e trita consuetudine, «terrorismo»; un altro conto è la guerra in Iraq del 2003-2011, la qui già evocata bufala sul possesso iracheno di armi di distruzione di massa e quanto ne segue nei termini di una guerra civile particolare che si sviluppa secondo tempistiche e modalità che se non sono immediate poco ci manca, visto che le date che le associamo sono quelle del 2013-2017. Di più. Le «linee di reciprocità tra il lutto americano e iracheno» di cui parla Jansen non riguardano precipuamente quei due momenti distinti ma l’elaborazione di un lutto interiore universale che ha la guerra come basso continuo e tre vicende – di Farid, Shaimà e Tim – come assoli di un’umanità sotto assedio: questi esempi di umanità sono circondati da una miriade di personaggi che poco possono per chi ricorda il terrore, dentro un viaggio reale nel mondo ma in compagnia di un «cuore di tenebra», che è una specie di accesso terribile alla fascinazione delle cose ultime, all’inquietudine esistenziale, quasi alla Olof Lagercrantz.9 Non è un caso che sin dall’inizio del testo e con più continuità verso la sua fine dominino le immagini cariche di significati simbolici delle scatole di Farid e del signor Hulford, un tesoro sepolto nel giardino della casa dove era cresciuto il primo, in Iraq, e una “cassetta-talismano”, esposta nella vetrinetta del motel sui monti Appalachi del secondo, nella quale sono conservati cimeli dell’11 settembre.

Infine, la particolarità del racconto della guerra di La scatola del signor Hulford non mi pare sia stata accolta e detta in modo (via via) più significativo, come mi sembra che il libro meriti, proprio perché sfugge alle catalogazioni dei prodotti italiani, attraverso un dettato onirico che non voglio ridurmi a dire post-moderno o iper-moderno, magari in virtù (sic) di una moda più o meno recente che parla di post-memoria, post-esperienza, crisi dell’inesperienza et j’en passe. Forse, proprio con l’autore, per ora potremmo dire che, a distanza di dieci anni dall’uscita del libro, il mondo ci sembra sempre più sporco e quindi meno trasparente. E a questo proposito, parlare di «realismo onirico» non basta forse a far capire (non è bastato nella ricezione critica di un libro originale ma dimenticato) la specifica particolarità del ruolo del sonno e del sogno e, ancor più, della fine del sonno e del risveglio nel libro di Giogio Taschini.

VII.

Certo, in tutte e tre le storie che compongono il libro e che in gran parte e in maniera complessa si intrecciano, il sogno è presenza costante, a tal punto da essere una sorta di metafora ossessiva, come avrebbe detto Charles Mauron.10 Le occorrenze manifeste della parola «sogno» sono, per dirla tutta, fin troppe e spesso distraggono, tanto che ci si sente un po’ prigionieri di una specie di coazione al sogno, quando invece il centro del discorso non è dato dal rilancio di quella nota traccia culturale onirica, di un’evidenza fin troppo plastica, ma dall’evento del risveglio. Se è vero che l’apertura sulla veglia è accompagnata da esperienze psicologiche non banali, tra cui, in primis, il ricordo del sogno, nel romanzo di Giorgio Taschini è la fine del sonno ad essere il più segreto e significativo oggetto della quête. Come ricorda Piero Salzarulo,11 il risveglio è un evento inevitabile, quasi quanto – per Farid, Shaimà e Tim – l’evento della guerra, in rapporto a un’alternanza che fin dal mondo antico aveva fatto parlare di sé: sonno-veglia, notte-giorno, vita-morte. Il ricordo del sogno sulla soglia del risveglio avviene in seno a quest’ultimo ed è quest’ultimo a essere il problema, perché non fa che spingere il personaggio in questione in una dimensione, quella della veglia per l’appunto, in cui non vuole entrare. L’unica scappatoia, in certi casi, è il suicidio, è la vita senza risveglio, la morte senza sogni. Per chi ritorna da una esperienza come quella della guerra, il risveglio può assomigliare a quello descritto da André Gide nel suo Journal, in una pagina del settembre 1916: «Je me lève, la tête et le cœur lourds et vides: pleins de tout le poids de l’enfer».12

Tra sogno e realtà,13 i personaggi del romanzo di Taschini tracciano, ciascuno a suo modo, una propria Guernica. Stavolta, gli autori del quadro sono gli americani e il romanzo sceglie – oserei dire – di essere americano. Per capirci, non ha niente, per esempio, del film di Alessandro Tonda, Il nibbio, del 2025, dove la dimensione privata che si privilegia è tutta italiana e tesa a una certa sublimazione del protagonista (bravissimo, comunque, Claudio Santamaria nei panni di Nicola Calipari), accolto nel Pantheon degli eroi nostrani. Cosa nobilissima di per sé ma che fa perdere di vista, all’interno di una spy story riconoscibile, pur nella sua crudezza, la guerra in Iraq e quel sottile rumore di fondo nell’ottantesimo anniversario della pace mondiale che ci ha ossessionato e ci ossessiona.

Note

1 G. Baget Bozzo, L. Bettazzi, S. Biasco, A. Cottino, T. Cozzi, V. Foa, W. Goldkorn, I. Man, G. Migone, R. Panizza, F. Pennacchietti, M. Salvadori, N. Tranfaglia, S. Vertone, 14 interviste sul Golfo. I perché della guerra per far vincere la pace, a cura della redazione di Radionotizie, Torino, Radio Torino Popolare, 1991.

2 La «Guerra al Terrore» si fa anche con la «prigione del terrore». E per «il fotogramma di una rappresentazione in movimento», rinvio a C. Bonini, Guantanamo. Usa, viaggio nella prigione del terrore, Torino, Einaudi, 2004.

3 A.-L. Pineau, S. Tardy-Joubert, Dopo l’11 settembre le violenze sessuali sono diventate metodi di tortura, in «Internazionale», 15 gennaio 2017.

4 L. Curreri, Le farfalle di Madrid. «L’antimonio», i narratori italiani e la guerra civile spagnola, Roma, Bulzoni, 2007, pp. 296-309.

5 J. Armstrong, Amore, sesso e altre questioni di politica estera [2015], trad. it. di G. Cuva, Roma, Fazi, 2016, per cui cfr. l’articolo di G. Culicchia, Con un po’ di sesso si dimentica la guerra in Bosnia, in «tuttoLibri-La Stampa», 3 settembre 2016, p. V.

6 Scrivo «quasi mai» per non apparire del tutto miope e, soprattutto, ingeneroso, anche se un minimo sindacale di generalizzazione resta nell’enunciato. In tal senso, è sufficiente pensare anche solo al fatto che la citata Corte ha avuto comunque, di recente, la fermezza di procedere all’incriminazione di Israele, marcando certo un punto a suo favore e muovendo al di là dei ricatti del Presidente degli Stati Uniti e di altri “candidati” al premio Nobel per la pace…

7 H. Goldman, Monde juif: briser le front intérieur, in «le blog cosmopolite», 27 juillet 2025.

8 Durante i primi anni del conflitto iracheno, si impongono i Suv sul mercato automobilistico, sempre più simili ai mostruosi Humvee che pattugliavano le strade di Baghdad (all’epoca se ne vedevano e si vedono ancora, anche per le nostre strade). Insomma si impone un modello di automobile con dimensioni sempre più grandi (il mondo pubblicitario avrebbe anche potuto partorire un claim tipo: «per vincere la tua quotidiana guerra urbana»).

9 O. Lagercrantz, In viaggio con «Cuore di tenebra» [1987], Genova, Marietti, 1988.

10 C. Mauron, Des métaphores obsédantes au mythe personnel: introduction à la psychocritique, Paris, Corti, 1963.

11 P. Salzarulo, La fine del sogno. Le porte del risveglio, Torino, Bollati Boringhieri, 1999.

12 A. Gide, Journal I, 1887-1925, Paris, Gallimard, 1996, p. 954 [19 septembre 1916].

13 Cfr. anche, a proposito, A. Trevale, «La scatola del Signor Hulford», la guerra irachena tra sogno e realtà, in «Sul Romanzo», 18 luglio 2015.