«Eppure gracchiano»
Note per Alessandro Broggi
e Andrea Inglese

Luca Lenzini

Uno deve vegliare, dicono. Uno deve esserci.
Franz Kafka

Chi ha seguito nel tempo le proposte (teoriche e fattuali) dell’area creativa variamente definita “poesia di ricerca” o “postpoesia” sa che al riguardo esiste ormai una bibliografia critica consistente,1 a fronte di lavori che senz’altro si possono annoverare tra i segni più vitali provenienti da un cosmo, quello della letteratura italiana contemporanea, affollato tanto in prosa che in versi ma di fatto, salvo rare eccezioni,2 povero di progetti non epigonali o di qualche respiro. Ben assestato, d’altronde, quel cosmo, su posizioni irriflesse, che nell’insieme recepiscono come dati naturali le convenzioni correnti e la relativa “divisione del lavoro” (un tempo usava dire così) tra entertainers obbedienti alle leggi del mercato, petit maîtres del disincanto ed eredi della Tradizione, i cui ultimi (o forse fatui) fuochi, pur autenticati da esperti certificati, rispecchiano generalmente lo stato della cultura di un paese, il nostro, in caduta libera. A fronte di questo sedimentato paesaggio, autori come Alessandro Broggi, Andrea Inglese, Gherardo Bortolotti, Marco Giovenale, Silvia Tripodi (per nominare solo alcuni tra i più presenti nel dibattito all’ordine del giorno) si muovono in larga autonomia e in slalom trasversale e spiazzante rispetto ai generi codificati, e sin dagli aspetti formali dei testi: non a caso una studiosa attenta (e militante) come Gilda Policastro ha parlato in proposito di una scrittura «non versale» e «di orientamento orizzontale» che genera «cose indefinibili nei canoni e nell’orizzonte d’attesa nostrano» (in quanto non solo «non vanno a capo», ma neanche sentono «nessuna coazione lineare alla trama e dunque non rientrano nemmeno nella narrativa»).3 Non che manchino antecedenti per un tal modo di operare, quando si pensi ai tempi gloriosi dell’“Art-quake”, alle avanguardie primonovecentesche – ma fin giù a Rimbaud… – ed alle sperimentazioni degli anni Sessanta e oltre; ed anzi è appunto sul versante della collaborazione e contaminazione tra le arti (teatro, musica, letteratura, pittura, fotografia…) che si può scorgere un tratto di continuità non superficiale tra i lavori degli autori citati e quelli degli avanguardisti della prima e seconda ondata del Moderno. In generale, però, quel che più colpisce ed anche – dato il contesto – stupisce negli esperimenti, spesso tra loro distanti, dei “post-poeti”, è che all’infrazione dei codici e dei canoni ricevuti corrisponde una postura inconciliata e di stampo antagonista che investe in toto il rapporto tra artista e mondo, in una prospettiva di superamento-contestazione dell’esistente quale, oggi, si deposita nei modelli più socialmente esposti (e interiorizzati) di quel «dominio dell’esteriore»4 che è l’altra faccia del solipsismo di massa. Prospettiva velleitaria, diranno subito i cultori del Postmoderno, preoccupati che qualcuno si opponga al “così è” che il presente ribadisce come legge globale, esistenziale ed eterna; ma niente di davvero velleitario c’è nello sfondo di pensiero e nella genealogia di questi autori, che paiono guardare soprattutto oltralpe:5 riferimenti importanti, oltre al ruolo pionieristico di Francis Ponge,6 esploratore per antonomasia di confini e generi, sono infatti ravvisabili in Jean-Marie Gleize,7 Christophe Tarkos8 e Emmanuel Hocquard:9 è perciò non tanto una “resistenza”, la loro, ma proprio una strategia di attacco – organizzata quasi come stress test – mediante apparecchi congegnati per far saltare ciò che quei cultori custodiscono come comfort zone di loro stretta competenza (il comfort, si sa, può anche indossare paramenti lirici).

Vedere come e se, al di là di poetiche e di etichette, le «cose» si muovono dentro quell’area dinamica e attraversata da formazioni di senso (correnti, scadute o propriamente ideologiche) che Bachtin, parlando del Romanzo, chiamava la «zona di contatto con la contemporaneità» e l’«incompiuto presente»:10 tale appare il compito primo di una critica che non si limiti a incasellare autori e testi in una sorta di stanza separata – né Poesia né Prosa, né Mercato né Accademia… – in attesa, magari, che lì ogni forma di insubordinazione o di oltranza finalmente si stemperi e normalizzi.

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Le «cose», dunque. Il termine usato da Policastro, nella sua genericità prosastica e in apparenza anodina, in realtà non è da intendere come mero aggiramento della difficoltà “tecnica” di definire gli esperimenti in atto, la cui novità sfugge alla presa di categorie accreditate. La res non viene da un altro pianeta, e va trattata come un concreto e ponderato manufatto: «scrittura», si dica pure, il termine non rievocasse teorie alla moda (tra Barthes e Derrida) in anni lontani, teorie facili a tentazioni astratte e riduttive rispetto alla portata delle proposte in questione. Nel gesto di sottrarsi ai repertori collaudati ed alle convenzioni dei prodotti serializzati, nello sfidare gli argini ereditati dalla storia, certamente riecheggia il lascito delle Avanguardie; ma se volgiamo lo sguardo ai testi nel loro materiale configurarsi, bisogna prima di tutto riconoscervi una visibile quota di densa, stratificata significazione, niente di meno di una esperienza del mondo: qualcosa, perciò, che non si contenta dei prefissi “post” o “anti” (post-poesia, anti-lirico), bensì ci porge un’apertura su declinazioni inesplorate del reale: zone che non fanno sconti e richiedono verifica, il rischio dell’interpretazione. Infischiarsene della sindrome nominalista-nomenclatoria, allora, può essere già un primo passo verso una più libera comprensione.

Se ci limitiamo, del resto, a rimarcare l’assenza di trame narrative nella prosa o di istituti metrici nei testi, fermandoci su quel che non c’è, sulle mancanze oppure sulle trasgressioni linguistiche, fatalmente finiamo per perder di vista o mettere tra parentesi quanto, in essi, attinge a vene di lungo corso o indica “costellazioni” che prescindono dai generi, proprio perché ne sfruttano molti. Nulla nasce nel vuoto, e specie con autori così coscienti del proprio operare. Un rapido sopralluogo per ipotesi e campioni – nel caso lavori di Broggi e Inglese – può allora servire ad abbozzare almeno qualche coordinata, sia pure in chiave provvisoria e parzialissima: non per riportare l’ignoto al noto, bensì per esplorare, per tentativi, possibili genealogie e parentele. Si pensi, in prima approssimazione, ai rapporti con il mondo del romanzo, ma anche con quello del saggio, due continenti che già di per sé hanno conosciuto interazioni strettamente collegate all’istanza conoscitiva propria del Moderno, una radice tuttora vitale e magari carsica, ma non cancellabile a colpi di spiccio pragmatismo (e tanto meno con le uggiose ciarle dell’auto-fiction). Da Joyce a Beckett (ben in vista tra i modelli più attivi), da Woolf a Proust, tema esistenziale e interiorizzazione del discorso già sottraggono alla trama ogni privilegio, anzi apertamente ne contestano la reificazione ed i passi falsi, senza per questo perdere contatto con la «parola romanzesca»; la stessa ricorrente forma del frammento, con suggestioni che possono irradiarsi sia dal campo letterario («These fragments I have shored…») che filosofico (da Nietzsche a Adorno, da Fortini a Hohl, Handke o Canetti), ha una sua lunga e nobile storia che non senza una ragione qui s’insedia con tanta naturalezza, quasi spavaldamente rivendicando i suoi diritti e le ascendenze saggistiche del pensiero critico, ovvero un orizzonte discorsivo mobile, per eccellenza dialogico e indocile alle formule. Non diversamente l’avventura del Surrealismo, specie nei suoi versanti di humour noir e di provocazione libertaria, sembra essere metabolizzata e rielaborata senza perdere il carattere originario di protesta.

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Tracce e confluenze – vettori in movimento – di questi universi si possono scorgere nei lavori di Andrea Inglese e Alessandro Broggi, in particolare nelle loro prove più recenti; e la prematura scomparsa di Broggi s’incide come una amara e profonda lacerazione, non rimarginabile, inferta ai nostri anni. Con Noi e , usciti rispettivamente nel 2021 e nel 2024,11 si è di fronte a opere che rappresentano un punto fermo nel campo della ricerca espressiva tout court: non più segnali o sintomi e nemmeno esperimenti, ma saldissime costruzioni intellettuali – opere, appunto – che s’impongono con insolita autorevolezza e altrettanta felicità inventiva. Già nelle titolazioni essenziali degli ultimi libri («Noi», «Sì») è palese l’impronta di una istanza affermativa che riattualizza la grammatica esperienziale, trasformando archetipi in potenza: il monosillabo, nel suo tratto elementare e radicale, annuncia lo spazio vertiginoso di un risveglio, un nuovo cominciamento. Di lì il riverbero utopico12 che percorre e accende i due libri, dove non è casuale siano così frequenti il futuro composto e il condizionale, tempi che segnano uno scarto dall’impianto narrativo tradizionale, messo in mora anche dove il modulo del viaggio (Noi) dischiude e riattiva la dimensione sua propria della Scoperta. L’intera consecutio temporum viene ridisegnata in profondità, sottoposta a torsione; lo straniamento torna a sollecitare il lettore perso alla speranza, indotto alla passività del Consumo e sigillato in quel presente che il lavoro dei testi mira, come una propria ragion d’essere, a destabilizzare e rivitalizzare (ri-alfabetizzare, si direbbe). Intrinseco all’elaborazione di nuovi paradigmi, il lavorìo sul tempo (sul possibile) conferisce spessore all’opera letteralmente in progress, diramandosi nei frammenti di una pluralità eterogenea scandita in tempi minuti, ordinari e domestici, e tempi maggiori, ciclici, dispiegati sulla misura biologica (lo «scatenamento di ere») che s’incrociano come falde ora emergenti in prossimità ora in stallo apparente e distante.

Per cogliere le mutazioni in corso occorrevano nuovi occhi, un “sensorio” capace di auscultare tanto il discorso della Natura (la cui alterità vibra in passaggi di memorabile pregnanza), quanto quello della Società, con l’eco del collettivo e dell’individuale ed i loro ritmi discordi, ogni volta interrotti e variati. Il che avviene in Broggi senza mai cercare la dissonanza esibita o l’informale indifferenziato: alla pluralità di tempi e discorsi si accompagna piuttosto un’arte combinatoria che sfrutta gerghi correnti (aziendale, scientifico, colloquiale, letterario) e riusa protocolli linguistici sull’onda di una immaginazione imperativa, smagliante e quasi soverchiante: ecco allora da una parte le «cadenze ottative» (), dall’altra i cataloghi infiniti di dettagli, oggetti, referti; inventari foltissimi, pronti forse per innumerevoli narrazioni future in cui astratto e concreto, permanente e impermanente, personale e impersonale allestiscano uno spartito elegante e durevole, sondando la morfologia sconfinata del «mondo non descritto»,13 frugando nei ripostigli inconsci, nelle apparizioni in fuga nell’attimo o albeggianti nel non-ancora. Qui le «panoplie di schemi d’azione» di De Certeau14 (esempio, per l’appunto, di saggismo demistificante e utopico) trovano il loro habitat più consono; e formulano l’invito che dobbiamo accogliere, come un lascito alto e vitale, per trovare una «metrica nuova»15 alle nostre esistenze.

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«E ora, certo; il faro sul promontorio, come so, incomincia a girare, e la Stazione spaziale internazionale, dove di nuovo mi attendono, sta completando un ennesimo circolo orbitale…».16 Un giro di frase di (sezione Tertium quid) sembra convocare insieme Stanley Kubrick (2001) e Virginia Woolf (To the Lighthouse): barbagli di pura Modernità che della percezione della dimensione plurima del Tempo testimoniano esemplarmente. Nelle sue recenti Storie di un secolo ulteriore17 anche Andrea Inglese scompiglia (e non poco) le carte della narrazione comme il faut; ma in tema di costellazioni sono altri i testimoni che chiama a raccolta, come il resto della sua opera,18 che proprio dell’incursione oltre i confini ha fatto un motivo fondante, ogni volta rinnovato.

In Storia con plagio l’autore implicato, anche se non nominato, è dunque Franz Kafka, precisamente l’autore di Il prossimo villaggio; il testo “plagiato” così recita:

Mio nonno soleva dire: “La vita è straordinariamente corta. Ora, nel ricordo, mi si contrae a tal punto che, per esempio, non riesco quasi a comprendere come un giovane possa decidersi ad andare a cavallo sino al prossimo villaggio senza temere (prescindendo da una disgrazia) che perfino lo spazio di tempo, in cui si svolge felicemente e comunemente una vita, possa bastare anche lontanamente a una simile cavalcata”.

Così Inglese:

Mia zia diceva spesso: “La vita è straordinariamente lenta. Quando ci penso si dilata fino a rendere ogni gesto interminabile, e quando si ha la mente pesante, per via di una disperazione insondabile e immotivata, appare incomprensibile come una persona possa, in una cucina di ampiezza comune, percorrere i pochi metri dal tavolo alla credenza, dove è alloggiato il mestolo necessario a servire la zuppa di patate e cipolle, senza invecchiare fatalmente, e morire per un tumore al cervello, un arresto cardiaco o un colpo apoplettico”.19

Traduzione, rifacimento, parodia, variazione, meta-letteratura, omaggio? Un’altra più lasca ripresa, nello stesso libro, riguarda Melville:20 citazionismo postmoderno? E ancora una riscrittura offre al lettore «Sette finali alternativi» del romanzo di Paolo Giordano, Tasmania:21 qui siamo in effetti nell’ambito della parodia, perché le varianti mettono a nudo, con un meccanismo di sostituzione potenzialmente infinito, la natura degradata del finale “in posa” del romanzo, che fa scadere a bigiotteria quel che fu una volta avventura di conoscenza; e già Nietzsche aveva stigmatizzato da par suo chi «arrotonda compiutamente» l’opera, lodando invece la capacità di rinunciare all’«ultimo tocco».22 Ma il caso di Kafka è diverso e sembra toccare, per Inglese, corde di altro ordine. Si veda intanto come nella brevità di Storia con plagio risaltino tanto le analogie, quanto le alterazioni: tra queste, oltre ai diversi contesti evocati, salta agli occhi il mutarsi della dilatazione temporale in contrazione, in parallelo con la trasformazione della vita «corta» in «lenta». Il racconto – anche qui la categoria vacilla… – è così sottoposto ad una operazione dialettica in cui si riflette l’ombra lunga del presente nella sua accezione storica, là dove campeggiano, come un sigillo epocale e seriale, tre familiari incarnazioni della fatale e finale «disgrazia» (tumore, infarto, ictus, in aggiunta alla Angst «insondabile e immotivata» evocata in precedenza), quasi si trattasse di uno sviluppo della parabola kafkiana di cui prendere atto, un suo degradato e domestico scadimento. Semmai si volesse parlare di parodia, è però quella che il presente compie, senza saperlo e come per un cieco esorcismo, della verità annidata dentro i paradossi di Franz; e resta, come un inquieto ma non spento residuo, lo stupore dovuto non all’Assurdo, che ben poco ha a che fare con Kafka, bensì alla crisi del paradigma Spazio/Tempo che Il prossimo villaggio metteva all’ordine del giorno, qualcosa come un calibrato spostamento dell’asse del mondo.

C’è qui una lezione o domanda con cui fare i conti; e in che misura la struttura discorsiva dei testi kafkiani influenza le nostre «storie»? Vale la pena, a mio avviso, riflettere sulle variazioni/citazioni (e relative tangenze e difformità) che Inglese dissemina con nonchalance nel suo libro; e intanto osservare, nel rifacimento, la presenza di numerosi dettagli di ordine realistico, assenti nel testo “originale”: la «credenza», il «mestolo», la «zuppa», in chiave con la «cucina» che fornisce lo scenario. Spesso impiegato in forma di catalogo e di enumerazione caotica, non solo nelle Storie l’uso del dettaglio proliferante e per dir così indomabile ha a che fare con il Surreale che imputa una radice irrazionale al Reale così com’è, e in questo modo tocca i nervi scoperti dell’Ideologia che vorrebbe irreggimentare e strumentalizzare (“razionalizzare”) ogni aspetto del mondo, incluso l’infinito ammasso degli oggetti che stanno proprio lì, dove siamo anche noi. Ma qui lo sguardo (e l’orecchio) di uno scrittore sensibile quant’altri mai alle pretese dei luoghi comuni, ai passepartout del conformismo, agli stereotipi rassicuranti, alle «frasi fatte» (a cui è dedicata, non a caso, una Storia) e in generale al tono d’epoca offre uno specchio prismatico e irriverente allo sfacelo del senso, puntando sottotraccia al tossico wishful thinking del Pensiero unico trionfante e alle esalazioni della defunta Democrazia Liberale, il cui avatar dismesso nella Silicon Valley in varie location (tra cui la nostra) si aggira ancora sugli schermi, a rammentarci che la vera, l’unica e inevitabile emancipazione è quella di chi può fare cosa vuole delle vite altrui (e così dar via libera alla guerra, peraltro iscritta nel DNA del Potere: si legga al riguardo Storia con esperto).23 Si capisce, quindi, perché il lavoro di chi raccoglie-inventa le storie, il suo compito peculiare e senza fine consista nello stare all’erta e porgere «come gli antichi Sioux l’orecchio al suolo».24

Del resto, in margine all’uso di Kafka non va dimenticato che anche della sua opera è stato fatto un uso normalizzante e retrogrado, espunto di ogni elemento sovversivo e tutto ricondotto allo sfondo teologico o esistenzialista; mentre in Inglese sembra riaffiorare quel filone di «ethos libertario» di cui ha scritto Michael Lôwy,25 intrecciato con una forma di Humour tipica dell’ebraismo, una vis comica trasgressiva da sempre26 e allergica all’ésprit de serieux; e soprattutto, come ha insistito Canetti, nessuno come Kafka ha reagito integralmente al Potere ponendosi in «una prospettiva unica nel suo genere, quella dell’assoluta impotenza».27 Ma è da quel punto prospettico, a sua volta inglobato nel kit del Dominio, che può scattare qualcosa di inatteso, magari una latente rivolta (o una risata): chi prende la parola nelle Storie è come una molla che quanto più è compressa, tanto più acquista forza. Un che di esasperato e di non più tollerabile presiede alle tirate (intese come forma specifica del discorso), al tour de force del monologo che, tanto più intrigante quanto più è coerente, è strettamente imparentato, nel suo carattere teatrale,28 con quello di Samuel Beckett. La verve è di chi nella disperazione non demorde.

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Storie. Chiamavano così gli antichi pittori i loro soggetti, e così ora gli adepti di Istagram definiscono i “contenuti temporanei” destinati a sparir via dal Web. Ma da quando il termine “narrazione” ha conosciuto una rinomanza planetaria, anzi un sequestro per l’uso strumentale dei media, di pari passo si è data una delegittimazione di ogni contenuto possibile di quel vetusto sintagma, contenuto intercambiabile in quanto scisso dal rapporto con il vero. Analogo sortilegio è toccato alla Realtà dopo l’avvento della Reality, già di per sé posticcia e inconsistente come l’autenticità che pretenderebbe di rappresentare: per cui ogni storytelling ricade nel Déja vu ed il Fake neutralizza anche le virtù del Falso. La Mimesi si è trasferita senza salutare in quartieri diversi da quelli del Romanzo, e persino l’Ironia è rimasta senza lavoro: nasce da qui, da questo inedito riassetto, la duplice necessità di moltiplicare la raffica ad alzo zero delle «cose», rincarando la dose alla spudorata iniquità del mondo; ma è anche per questo che s’impone il tagliar corto, l’aguzza brevitas del frammento, ricorrente in Inglese e altri.

Avviene insomma che lo svolgimento declinato al presente sottragga spazio alle trame ma rilanci a tutto campo l’elemento fantastico, nel senso della fantasticheria cara ai perdigiorno di Bloch; ed è forse questo, anche, il luogo in cui Broggi apre un varco al futuro. La stessa ubicazione delle Storie nell’«ulteriore», da parte di Inglese, risente di una simile dislocazione, non tanto nel Dopo, quanto in una zona al di là della percezione corrente ma prossima, un surreale che tende a fagocitare e trasformare en souplesse ogni soggetto a portata di mano (è il regno di quello straordinario talento di nome Julio Cortázar). Il crudele, il macabro, il feroce, l’insensato, l’osceno e l’irredento trovano qui un territorio elettivo e per dir così familiare – non provocazioni ma rabdomantiche profanazioni, un po’ come in Bacon.29 E di nuovo riappare qui, come un’ospite perturbante, lo shock del riconoscimento, infiltratosi nelle derive e negli excursus di soggetti stralunati eppure dotati di una logica implacabile, nelle squadre screanzate di teatranti carnevaleschi in preda ad un irrefrenabile istinto parodistico, strani e necessari compagni…

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Ci dispiace, siatene certi, ci aspettavamo tutti di più, invece è questo che rimane. (Il frigo è vuoto, ha pure smesso di ronzare. Non si trova neppure in giro il vecchio nocciolo di pesca. Eppure le gazze gracchiano).

Ci dispiace e basta. Questo è il solo senso che possiamo dare a tutto quanto è accaduto (a noi, certo, ma anche, molto prima di noi, a tutti gli altri). (Eppure gracchiano). (Storia con dispiacere)

Note

1 Uno sguardo d’insieme sul tema, con particolare attenzione alle poetiche individuali ed alle connesse teorie, è fornito da C. Crocco in Poesia lirica, poesia di ricerca. Su alcune categorie critiche di questi anni a partire da due libri recenti («L’ospite ingrato», 12, luglio-dicembre 2022, pp. 251-267); Ead., La poesia in prosa in Italia. Dal Novecento a oggi, Roma, Carocci, 2021; segnalo inoltre Teoria & poesia, a cura di P. Giovannetti e A. Inglese, Milano, Biblion, 2018, ed il più recente studio di G. Policastro, Il metaverso. Appunti sulla poesia al tempo della scrittura automatica, Macerata, Quodlibet, 2024 (in particolare si veda il capitolo «Poesia è prosa?», pp. 104 segg); A. Inglese et al., Prosa in prosa: con 504 illustrazioni in bianco e nero nel testo, Firenze, Le lettere, 2009; P. Giovannetti, La poesia italiana degli anni Duemila: un percorso di lettura, Roma, Carocci, 2017.

2 Tra le quali è sicuramente da ricordare il lavoro di Italo Testa; rinvio per questo al mio intervento sull’«Ospite ingrato», Riaprire i giochi, 18 aprile 2024.

3 Cito da G. Policastro, Arriveranno i poeti e romperanno gli schemi come fece Duchamp, in «La Stampa», suppl. «Tuttolibri», 18 gennaio 2025, pp. 3-4.

4 Sfrutto i termini proposti da R. Finelli e M. Gatto, Il dominio dell’esteriore. Filosofia e critica della catastrofe, Roma, Rogas, 2024.

5 Come testimoni dello spessore critico di quest’area si veda almeno A. Inglese, Leggere Reznikoff: tra oggettivismo e letteralità, in «il verri», 80, ottobre 2022, e Id., Iconoclastia artistica e concetto di littéralité, apparso anche in Teoria & poesia cit.

6 Memorabile la lettura che ne dette nel 1980 Vittorio Sereni: V. Sereni, Il lavoro del poeta, in Id., Poesie e prose, a cura di G. Raboni, Milano, Mondadori, 2013, pp. 1132-1143. Più recente lo studio (tra tanti) di B. Gorrillot, Francis Ponge: sortir du manège Vers/Prose?, in «Cahiers Francis Ponge», 3, 2020, pp. 143-162.

7 Si veda l’importante J.-M. Gleize, Qualche uscita. Postpoesia e dintorni, a cura di M. Zaffarano, Roma, Edizioni TIC, 2021; senza pretesa di completezza ricordo gli interventi di C. Wall-Romana, Is “Postpoetry” still poetry? Jean-Marie Gleize Dispositif-writing, in «Forum for Modern Language Studies», 47, 4, September 2011, pp. 442-452.

8 Vedi C. Pardo, “Dire sans lire”: une leçon de lecture publique (Christophe Tarkos, cip M, 18 avril 1997), in Écrivains en performances 2018, éds. C. Soulier, M.-È. Thérenty, G. Yanotshevsky, Montpellier, 2018.

9 Vedi F. Scotto, Emmanuel Hocquard. La poésie mode d’emploi, in «Studi Francesi», LXV, 195, 2021; più in generale si veda la puntuale rassegna Le macchine liriche. Sei poeti francesi della contemporaneità, a cura di A. Inglese e A. Raos su «nazione indiana».

10 Rinvio ai celebri studi di M. Bachtin, in particolare Estetica e romanzo, a cura di C. Strada Janovič, Torino, Einaudi, 1979: qui vedi Le forme del tempo (cito da p. 378).

11 A. Broggi, Noi, Roma, Edizioni Tic, 2021; (seguito da Altri segni, Tertium Quid, ultimo esempio), Roma, Edizioni Tic, 2024. Tra i titoli precedenti ricordo Inezie, Como, Lietocolle, 2002; Coffee-table Book, Massa, Transeuropa, 2011. Per una lettura di si veda A. Comparini, Broggi: “Sì”, una vertigine di parole, in «Doppiozero», 9 ottobre 2024.

12 Vedi A. Inglese, Su “Noi” di Alessandro Broggi, in «nazioneindiana» 17 marzo 2022, p. 3.

13 A. Broggi, cit, p. 65.

14 M. De Certeau, L’invenzione del quotidiano, trad. it. di M. Baccianini, Roma, Edizioni Lavoro, 1990, p. 116.

15 A. Broggi, cit, p. 98.

16 Ivi, p. 108.

17 A. Inglese, Storie di un secolo ulteriore, Bologna, Derive/Approdi, 2004.

18 Tra i titoli principali ricordo i romanzi Parigi è un desiderio (Firenze, Ponte alle Grazie, 2017) e La vita adulta (Firenze, Ponte alle Grazie, 2021); inoltre Commiato da Andromeda (Vecchiano, Valigie Rosse, 2022), Stralunati (Roma, Italo Svevo, 2022), Il rumore è il messaggio (Viareggio, Diaforia, 2023) e il recente Prati. Extended version, Roma, Edizioni Tic, 2025, che raccoglie testi dal 2007 al 2023.

19 A. Inglese, Storie di un secolo ulteriore cit., p. 88.

20 Id., Storia con balena o baleniera, ivi, pp. 27-29.

21 Id., Storia con sette finali alternativi di Tasmania, ivi, p. 69.

22 F. Nietzsche, Idilli di Messina – La gaia scienza – Scelta di frammenti postumi, in Id., Opere complete, a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano, Adelphi, 1991, pp. 103-104.

23 A. Inglese, Storie di un secolo ulteriore cit., pp. 92-96. Ci si ricorda, leggendo questo testo esemplare, di Karl Kraus: che nel 1914 scriveva «a essere rivelatore non è l’evento bensì l’anestesia che lo rende possibile e lo sorregge» (K. Kraus, In questa grande epoca, a cura di I. Fantappiè, Venezia, Marsilio, 2018, p. 81).

24 A. Inglese, Storie di un secolo ulteriore cit., p. 81.

25 M. Lôwy, Kafka sognatore ribelle, Milano, Eleuthera, 2007, p. 33.

26 Vedi per esempio F.M. Cataluccio, Kafka comico, in «Doppiozero», 3 gennaio 2006; classico (e controverso) il saggio di G. Deleuze e F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, trad. it. di A. Serra, Macerata, Quodlibet, 2010. Nel registro comico di Inglese è particolarmente efficace Stralunati cit.

27 E. Canetti, Processi. Su Franz Kafka, Milano, Adelphi, 2024, p. 139.

28 Vedi G. Benzi, Storie di un secolo ulteriore di Andrea Inglese, in «Il Tascabile».

29 Attitudine e analogia riscontrabili del resto anche in Prati cit.