Enzo Carli e un libro d’arte del 1941
Alberto Olivetti

Nel 1941 Giulio Einaudi era impegnato nel varo della nuova collana «Biblioteca d’Arte» e in una lettera dell’8 marzo di quell’anno, rivolta al curatore Carlo Ludovico Ragghianti, raccomandava che l’iniziativa editoriale «doveva interessare un largo pubblico, e suscitare sorpresa per la novità del materiale illustrativo, oltre che per l’accuratezza delle indagini critiche, che non devono avere sapore accademico, ma essere aderenti alle necessità artistiche e culturali del nostro tempo».

Il 29 agosto, fresco di stampa il volume di Enzo Carli Sculture del Duomo di Siena. Giovanni Pisano, Tino di Camaino, Giovanni d’Agostino che inaugura l’impresa, Ragghianti scrive a Einaudi: secondo un’opinione che egli aveva avuto modo di registrare, si giudicava il libro di Carli come «la più bella pubblicazione d’arte uscita negli ultimi vent’anni». E il 4 settembre il ministro Giuseppe Bottai informa l’editore d’aver disposto l’acquisto d’un certo numero di copie per le pubbliche biblioteche, considerato il pregio dell’opera.

Ad Enzo Carli si deve, oltre al testo critico, il materiale illustrativo che lo correda. Data la scarsità dei mezzi che l’editore poteva assicurare in quei mesi del primo anno di guerra, Carli decise di scattare lui medesimo, e con grande profitto, le fotografie delle sculture studiate realizzando centonove tavole che, nell’intento dei promotori appunto, dovevano svolgere una funzione nuova nella concezione del libro d’arte. Non per caso Santorre Debenedetti confermerà Einaudi riguardo al risultato ottenuto da Carli e da Ragghianti dichiarandogli: «Ciò che mi pare veramente egregio è l’assetto tipografico e, vorrei dire, editoriale, che supera in eleganza tutte le altre esperienze fatte in Italia in questi ultimi anni». Entro una custodia color mattone con l’immagine del volto della Maria di Mosè di Giovanni Pisano, sta il volume rilegato in tela verde con, sul piatto, impresso in oro lo Struzzo col cartiglio che esalta le virtù dello spirito umano.

Il 20 agosto del 1941 Carli compiva trentuno anni. Dieci anni prima si era laureato a Pisa con Matteo Marangoni. Quando si applicò alla stesura di Sculture del duomo di Siena, egli aveva già dato prova d’un costante apprendistato sull’argomento della scultura italiana dal Due al Quattrocento. Tralasciando altri contributi, fin dal 1932 aveva dedicato un saggio a Il monumento Gherardesca nel Camposanto di Pisa («È il mio primo studietto di storia dell’arte, scritto a ventidue anni», rammenta Carli); e nel 1934, per i tipi di Le Monnier, era uscito a Firenze il volume Tino da Camaino scultore, mentre in quel medesimo anno si occupava di Nino Pisano su «L’Arte». Precoci studi su artisti scoperti ed amati fin dagli anni dell’università pisana.

Quegli anni di discepolato con Carli, che Ragghianti rammenta in uno scritto apparso nel giugno del 1937 su «La Critica d’Arte»: «Perché non ricordare certe ore di Pisa afose, dense di colori e di traspirazioni pomeridiane – le lezioni avevan luogo dalle due alle tre, per consentire al docente di tornare alla sua città di residenza con un treno non tanto tardivo –, oppresse dal ronzio greve della vecchia macchina a candele scoperte appostata a uno spioncino della parete di fondo, macchina che spesso scoppiava con un lampo accecante e un boato, provocando negli scolari le più diverse reazioni, dal panico strillante alla risata? Ricordi, caro Enzo Carli?».

Ragghianti e Carli studenti che girano per la campagna pisana a visitare pievi e sculture romaniche, che passano lunghe ore sul Duomo e sul Battistero, a veder da vicino le sculture. Anche Carli tornerà su quegli anni felici, «senza ombra di nostalgia per la lontanissima giovinezza». Questo Carli giovane è tale quale si mostrava fino nella sua età estrema: appassionato, laborioso, fervido di idee e generoso. Aperto, disponibile, ricco delle abbondanti messi che ogni stagione della sua vita gli aveva recato. Privo di malanimo, di supponenza, di piccola vanità. Un ottuagenario saggio cui era cara la malinconia, la «ninfa gentile» cantata da Pindemonte, ma non discara pertanto la corda dell’allegria, la felicità del vivere.