Tiziano Rossi,
Il brusìo
Pierluigi Pellini

Oggi, 20 giugno 2025, il decano dei poeti italiani compie novant’anni. Questo pezzo – una recensione a un suo libro bellissimo, Il brusìo, pubblicato da Einaudi pochi mesi fa – per una svista redazionale è uscito sulle pagine culturali de «il manifesto» con due giorni di anticipo, mercoledì 18 giugno. Le ripubblichiamo dunque oggi, con gli auguri affettuosi dell’«Ospite ingrato» a Tiziano Rossi.

La raccolta di Tutte le poesie. 1963-2000, proposta da Garzanti nel 2003, è apparsa per due decenni come la summa definitiva dell’opera in versi di uno dei più significativi poeti del nostro tardo Novecento. Nel nuovo secolo, infatti, Tiziano Rossi ha avuto un secondo, felicissimo esordio, in veste di narratore, con cinque raccolte di «raccontini», o «antifavole», di cui un volume edito da Moretti & Vitali, Gli affaccendati, ha offerto nel 2024 un’antologia. Certo, questi originalissimi testi narrativi è possibile leggerli anche come poèmes en prose; nondimeno, il ritorno alla scrittura in versi, nella «bianca» di Einaudi, alle soglie dei novant’anni, è un regalo per certi versi inaspettato e aggiunge un tassello tutt’altro che marginale alla sua opera omnia. Perché Il brusìo, questo il titolo del nuovo libro, non si accontenta di rinnovare l’osservazione fenomenologica, al tempo stesso affabile e acutissima, di quella brulicante umanità, prevalentemente urbana, che era protagonista dell’ultima raccolta in versi, Gente di corsa (2000), come di molti micro-racconti degli anni successivi; né si limita a raffigurare il vitalismo (felice o disperato) dei suoi personaggi con un’intonazione più intima e riflessiva, a tratti perfino risentita, come già facevano i più recenti esperimenti in prosa. Quella di Rossi, in coerenza, se si vuole, con le origini nella cosiddetta “linea lombarda”, resta senz’altro poesia polifonica, aperta al mondo, più incline a ospitare oggetti, personaggi e azioni, che effusioni dell’io; e resta poesia spesso ironica, in sordina se non in falsetto, capace di far convivere poetic diction – affidata all’iperbato, come in Sereni, o a lacerti di metrica tradizionale – e parlato: così, per esempio, in questo endecasillabo, all’explicit di un testo che cede la parola a tale dottor Póntoli (Rossi è maestro nel dare ai suoi personaggi nomi al tempo stesso improbabili e azzeccati), ingenuamente fiducioso nella razionalità matematica del mondo: «e nessun corpo può scamparla. Mah».

Però, nel Brusìo, sulla benevola ironia spesso fa aggio l’angoscia, dietro la terza persona si intravede la prima (per esempio nel vecchio che gaddianamente «Vagava – in un sogno – per la casa»), e perfino il flusso dell’esistenza, lo slancio vitale un tempo osservato con empatica adesione, si fa ambivalente, non di rado si carica di violenza: urbana, come nella scena del graffitaro «dissanguato»; domestica, contro una giovane madre; ma anche naturale, come nel coacervo di insetti vicendevolmente aggressivi, in un prato che assomiglia alla vigna di Renzo. La vita appare allora cieco movimento privo di senso, se non addirittura brutale determinismo biologico. «Agili tempi» è il sarcastico epitaffio sul corpo di una ragazza morta, per tre giorni ignorato accanto alla ferrovia; ed è difficile distinguere adesione e denuncia in tre altre conclusioni esemplari: «non è / sempre grandioso il divenire?»; «Noi siamo dunque gli incamminati / e avanti sempre»; «Povero me! È troppa l’esistenza!» (o ancora: «Fluire è la cosa che conta»). L’aporia è in realtà inevitabile, ogni conclusione, positiva o negativa, essendo incompatibile con la vita stessa, perché «Esistere è un teso rinviare». D’altra parte, in vari testi la poesia si conferma capace di redimere l’istante, il puntiforme presente, l’epifania di un ricordo o di un gesto: «del seguito, in fondo, che importa?».

Eppure, traguardato dalle altezze vertiginose di un’età estrema («nella stagione del rattoppare»: nessuno come Rossi sa rendere poetici gli infiniti sostantivati), il mondo rivela soprattutto il male. Il divenire assume la forma metaforica, e mortuaria, del «trasloco»; l’immaginazione ottimistica, più che accarezzata con nostalgia, è screditata con sarcasmo, per esempio quando sogna i tropici, «con palpitante vena salgariana», come conseguenza del riscaldamento globale; e perfino i ricordi d’infanzia, non di rado intercalati all’osservazione del presente, se certo segnalano un’affinità profonda – il vecchio è tombé en enfance, come si dice in francese, e nei suoi ultimi anni deve «finire i compiti» –, riportano soprattutto a uno scenario bellico di cui è patente la rinnovata attualità, storica e metafisica: «È sempre la guerra e il suo fandango», cui non c’è altro da opporre che «l’istinto / speciale di tutte le bestie», capaci di trovare riparo nei più reconditi anfratti. Le memorie felici, invece, sono «finto spettacolo», semplice «digressione».

Lo stesso «brusìo» del titolo da un lato può evocare la felicità di voci lontane: «quel coro involontario / sul cibo, i figlioli, il campionato» che riemerge da un nomen omen, «la pensione Letizia che a sé basta» (splendido endecasillabo); o può trasformarsi in «un canto di risarcimento / lento, inudibile». Dall’altro lato, è anche la violenza di un «rumore di fondo» (quello dei bombardamenti, o quello non meno brutale del tempo che passa), sottrae all’io il privilegio della Parola, sembra imporgli «uno zitto dissolversi mite». Ma non è sempre così. Perché una galleria di revenants – su tutti il padre, il pittore Vanni: «ora son più vecchio di mio padre / e gli farei da fratello maggiore» – chiede e ottiene «finalmente» la pienezza di un’accensione lirica: «Certo, imperfetti sono i ricordi / e tu, magari, non proprio così / ma rimane il tuo calore che non scotta / e io – finalmente – in un singhiozzo». Sono versi bellissimi, in equilibrio perfetto fra intensità emotiva e controllo formale, come molti altri in questo libro importante.