Quelle giornate
Franco Fortini

Forse, col trascorrere degli anni, il ricordo perderà i contorni, come è sorte di quelli d’infanzia e d’amore; ed i figli ne ascolteranno la narrazione come si fa di un’alta avventura. E se già fin da ora non siamo sazi d’udire la vicenda degli altri e di riandare la nostra, si è perché sappiamo, in qualche modo, che nessuna narrazione o cronaca può esaurire i significati di quelle giornate; che qualcosa, dunque, vi si cela alla nostra volontà d’indagine. Accadde allora, in quasi tutta Italia, quel che ben di rado passa nella vita d’una generazione e che è altro da una rivoluzione o da una disfatta: e questo fu la morte dell’autorità.

Fu il caos, dicono, gli storici: ricordo le pupille sgomente d’un gruppo d’operai, verso Còrsico, il pomeriggio del dieci, quando uno arrivò, le mani piene di volantini fascisti. Dopo il luglio, il re era rimasto, le stellette, i carabinieri; ora i generali fuggivano sulle lunghe auto polverose targate “R.E.”, o piangevano, tra l’oro cieco degli alamari, guardati da qualche SS, nelle sale d’aspetto delle stazioni. Nei fossi si sparpagliavano i caricatori. Dissolta l’autorità, gli uomini si trovarono liberi da rabbrividire, indifesi. S’accorsero, ed era forse la prima volta, che un consiglio aveva davvero importanza, che l’amicizia era una cosa grave e l’amore una cosa pura. Provarono anche la propria capacità d’esser vili. Caduti gli aiuti, le impalcature, i riferimenti, fummo soli. E come accade sempre di fronte alla libertà, passarono sulla folla che noi eravamo, sui reggimenti che si disfacevano, sugli operai che chiedevano invano le armi, sulle plebi che saccheggiavano i magazzini, due sentimenti, uniti e sovrapposti, altissimi: una grande paura, e una grande speranza.

Era la paura dell’ignoto e dell’incerto, che è tanto più forte di quella del pericolo e della morte, perché è paura dell’inconscio che ci minaccia alle svolte impreviste. Il nostro inconscio aveva il casco germanico, era loro, quella forza di polvere e di metallo. Era, insieme, una grande speranza, il senso che qualcosa di irrimediabile era avvenuto, e di grande, dal quale qualsiasi nascita era possibile.

Avevamo veduto bruciare Milano, nel sole rosso di quell’agosto, levarsi interminabili nei crepuscoli le colonne di fumo degli incendi. Ci veniva fatto di chiedere che ancora, acora più profonde si conficcassero nel nostro popolo e in noi le unghiate della violenza, fino a scatenare contro i colpevoli le forze dell’ira e della collera. Avevamo veduto nascere una solidarietà e una fraternità che eran parse favolose, sui campi della periferia, tra gli accampamenti di fuggiaschi. E ci scoprivamo a volere che noi e i nostri fossimo ancora più miseri, ancora più bisognosi gli uni degli altri, perché l’antica menzogna italiana che ci aveva oppresso il cuore per tanti anni fosse spezzata.

E perché tutte le vergogne si distruggessero in una volta. L’avevo veduto negli occhi dei soldati, pochi giorni prima, quando nel cortile di sole, due, quattro s’erano staccati dalle file con la loro pagnotta verde di muffa e vuotata dai topi ed erano andati incontro al signor maggiore. Il signor maggiore aveva urlato, aveva alzato e abbassato il frustino sui soldati. Ma poi passarono, in quelle giornate, i carri tedeschi per le strade di Milano, con un alto fragore, invincibili.

Li guardavamo, dai marciapiedi; e ci scoprivamo a stringere i pugni impotenti, ci balenava in mente la bellezza rabbiosa del lazzaro, nero, piccolo, e disperato, che pugnala l’uomo del nord, potente nella sua corazza. Fu un giuramento corto e fondo, di vederli un giorno umiliati come essi ci umiliavano.

Per le campagne, lungo i laghi e i fiumi, le scarpe militari lasciavano l’asfalto che gemeva al sole, morso dai cingoli, e s’inerpicavano tra le ginestre. Si cominciava a imparare i risvegli nei fienili. C’era chi saliva più in alto, dove i boschi di castagni s’aprono in radure deserte. Il confine.

Ci si accorgeva che la “Beretta 9” pesava troppo, nelle tasche di un abito borghese. Che una cartuccia, un fucile diventavano necessari come l’acqua e il pane. Si cominciò a morire.

A qui primi morti di quelle giornate, i morti della Cecchignola e di Piacenza, gli ignoti morti delle strade e delle piazze, noi siamo riconoscenti di un esempi o che tutti i morti e le sofferenze che sono venute più tardi non eguagliano: essi sono stati i primi italiani che senza aver conosciuto altra verità da quella del loro paese e dei loro anni, abbandonati da tutte le belle immagini che possono render meno grave l’affrontare la morte, senza patria, senza onore, senza parole d’ordine, senza speranza, han voluto provare che anche sulla nostra parte d’Europa si dovevano allungare i corpi seminudi dei poveri, degli eterni assassinati. Il sole di settembre splendeva sulle strade: e cominciavano qua e là a disseccarsi se pozze di sangue, accanto al cuoio dei talloni nudi, alle mani oscure di lavoro dei contadini e degli operai. Allora, ognuno poté decidere.

Non furono che pochi giorni: ma definitivi per tutti noi. E se ci volgiamo a guardare prima di quelli, quasi non ci riconosciamo. Oltre le rovine dell’autorità costituita, ognuno di noi intravvide possibilità infinite di rifare e ricreare tutto di nuovo. Ci promettemmo di non tradire più quella libertà macchiata di vergogna e di orgoglio che avevamo portato, per pochi giorni, nel pugno. Poco dopo, tutto tornò ad essere grigio e deserto e vile; gli avvisi della kommandantur minacciarono morte sui muri dei paesi. Ci fu chi disse che era meglio non pensarci, aspettare, presentarsi. Ma non era più come prima.