
In Autorizzare la speranza. Giustizia poetica e futuro radicale1 Italo Testa affronta luoghi e temi nevralgici della riflessione sulla poesia: luoghi troppo spesso elusi, per non dire rimossi o forse affondati in zone atrofizzate della nostra sensibilità, del comune sentire. Lo stesso titolo appare concepito in senso controcorrente nel sottinteso richiamo ad un ripensamento complessivo e militante dei termini di fondo con cui avvicinare e interpretare la poesia (e in generale l’arte), e proprio per questo si presta bene a innescare un dialogo, invita al dibattito. Non sono mancati riscontri, infatti, a loro volta stimolanti, su Autorizzare la speranza (ricordo tra gli altri gli interventi su «Nazione Indiana»2 di Vincenzo Bagnoli, Tommaso Di Dio e tra gli altri Paolo Febbraro su «Doppiozero»);3 ma la molteplicità e la portata degli spunti presenti nel libro, il suo prendere di petto il ruolo e i fondamenti stessi della poesia offrono materia per repliche e approfondimenti a largo raggio e in quanto tali non improvvisabili, comunque difficilmente confinabili nell’ordine della recensione e dell’intervento volante. Quella che qui propongo è perciò una lettura parziale (ma spero non riduttiva) del libro e un primo commento di ordine generale (e spero non generico).
Per prima cosa, una precisazione di natura generazionale: se è vero che Autorizzare la speranza è un libro controcorrente, si deve subito aggiungere che lo è in un modo assai familiare a chi (come chi qui ne parla) si è formato negli anni Settanta, quando libri di questo genere erano, in realtà, tutt’altro che rari, anzi molto frequenti e a dirla tutta parte integrante e inevitabile della cosiddetta educazione o formazione di chi, critico o lettore o autore che fosse, si avvicinava ai temi letterari e in senso lato culturali. Rari, testi del genere, sono diventati oggi. Ma di quale “genere” sto parlando?
Semplificando, alludo al genere di libri, pamphlet o saggi, che non si limitavano a esprimere opinioni o posizioni sulla poesia passata e presente, su questo o quell’autore, ma avanzavano proposte teoriche tali da fondare, ogni volta ed in senso ampio, il discorso critico, con l’ausilio degli strumenti più vari (psicanalisi, marxismo, linguistica, semiotica, antropologia, ecc.). Che poi a monte di quelle proposte, magari velleitarie e provocatorie, ci fosse l’elaborazione e la promozione di una determinata poetica, personale o di gruppo, questo non ne diminuiva la portata ma faceva parte, insieme a molte altre cose, del gioco, cioè alla fine di quel che per approssimazione definiamo appunto “cultura”: alcunché di non separato e inerente invece alla dimensione collettiva, e proprio per questo coinvolgente. Dovendo scegliere un esempio, nella moltitudine dei tentativi di quegli anni, citerò un saggio che anche per l’essere il punto di arrivo di una riflessione durata decenni appare oggi più significativo di altri: Sui confini della poesia di Franco Fortini,4 che data al drammatico 1978 e che, a veder bene, ha numerose tangenze con il libro di Testa, proprio quanto al genere ed alle intenzioni di fondo. Ma in generale, quanto alle variegate proposte nel frattempo invecchiate e dimenticate del secondo Novecento, non si trattava allora – e tuttora non si tratta – di una questione di mero aggiornamento, quanto del bisogno di rilegittimare e riproporre criticamente qualcosa di cui è percepito l’essere problematico, anzi in crisi – uso questa parola, crisi, che nel discorso di Testa ha un suo rilievo specifico – ovvero a rischio di autoreferenzialità e di epigonismo in una epoca di veloci cambiamenti, di ridislocazione dei saperi e dei “campi” (si direbbe oggi); e tutto questo, va ribadito, non dentro al recinto degli specialismi o nel chiuso di conventicole, ma nella cornice di una discussione corrente e permanente, attraversata da punti di vista in dialogo/conflitto.
Oggi, lo sappiamo, un dibattito vero e proprio, nel senso ora accennato, è venuto a mancare e anzi – questo il punto – non se ne sente affatto il bisogno, come se queste cose fossero di pertinenza di riviste specializzate e convegni accademici, senza riguardare il contesto generale, e come se il discorso si potesse sottrarre alla dimensione collettiva e prescindere da una prospettiva eticamente orientata. Un moto regressivo e atomizzante fa tabula rasa di ogni progetto o discorso posto entro un orizzonte condiviso di emancipazione, non obbediente alla divisione del lavoro tra Mercato-Intrattenimento e Accademia, quale caratterizza lo scenario odierno: dentro questo quadro, un lettore non rassegnato o omologato troverà in Autorizzare la speranza motivi di consenso e segnali di risveglio, costellazioni di pensiero che hanno tutt’altro segno rispetto al cambiamento intervenuto a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. La sventagliata di proposte e letture che il libro squaderna rappresenta di per sé una reazione alla tabula rasa di cui sopra; il che è tanto più notevole, in quanto l’autore non rinuncia a mettere in gioco una data tradizione, un lascito preciso. Quale tradizione, quale lascito?
Per farla breve, quello del pensiero critico, implicato e ridiscusso senza essere feticizzato o concepito come repertorio di dogmi bensì messo di fronte alla sfida del presente, e perciò confrontato con istanze provenienti da background e orizzonti diversi e lontani da quelli consueti, non angustamente letterari ma poliedrici ed eccentrici rispetto alle gabbie disciplinari ed alle categorie mainstream. Proprio in questo allargamento del discorso, anzi, risiede un punto di forza di Autorizzare la speranza: nella mobilità di sguardo – lo sguardo «impuro» proposto nel capitolo «Impurità» (p. 110) – da cui muovono le incursioni sul tema del paesaggio, della fotografia, più in generale nell’ambito del rapporto dell’arte con la natura – uno degli assi portanti del libro –; e non si tratta, si noti bene, di excursus o divagazioni ma propriamente di saggi saldamente collegati tra loro. L’istanza etica vive e si afferma in queste aperture, nel caleidoscopio di riferimenti e citazioni senza che l’ordine del giorno del discorso abbia bisogno di proclami o manifesti, tanto è radicato nel presente, nel qui e ora ovvero nel mobile confronto (saggistico, appunto) con il nostro tempo nei suoi aspetti più contraddittori, plurimi e inquietanti. Introdotta in un habitat vasto e stratificato la poesia ne guadagna, per così dire, in lungo e in largo, ovvero in spessore e “autorevolezza”: una auctoritas che non si vuole normativa ma attiva e aperta, proiettata oltre i confini dell’esistente. Mettendo in dialogo Whitman con Celan e Clement o Smithson con autori come Trevisan o Ghirri, Keats e Benjamin, Shelley, Fortini e Zanzotto, il libro fa entrare nelle stanze da troppo tempo chiuse degli specialismi una bella dose d’aria fresca, rigenerante.
Ma visto che ho parlato di “tradizione”, a rischio di passare per pedante e ritardatario aggiungo di non riuscire a leggere la Speranza di cui parla il titolo del libro senza pensare a Ernst Bloch; e non importa se nelle pagine ricorre piuttosto il nome di Adorno o quello di Benjamin. In questa prospettiva, mi sembra di particolare rilievo un passaggio di «les jeux ne sont pas encore faits» (p. 81): qui il riferimento è a una conversazione tra Adorno e Bloch (1964) intitolata Manca qualcosa… Una discussione […] sulle contraddizioni del desiderio utopico (pubblicata nel 2006 su «La società degli individui»); ebbene, riprendendo quel saggio, oggi è più che mai necessario ripetere che – nonostante tutto quel che ci viene propinato quotidianamente dai media e dai «fondamentalisti del libero mercato» (Jameson)5 – non solo c’è qualcosa di essenziale che ci manca, ma che, proprio per questo, non è possibile rinunciare a mettere in relazione quel che manca, i vuoti del presente, con la speranza e le altre nozioni cardinali che il libro di Testa chiama a raccolta, sin dal titolo: cioè Giustizia, Futuro e, insieme, ad esse, quella di Utopia; e persino – imperdonabile pretesa – di Felicità (si veda il capitolo «Metriche della felicità»). Rimettere all’ordine del giorno queste nozioni vuol dire infatti riconoscere che nell’oggi esse sono negate, tradite o deformate, e che bisogna ridar loro un luogo, una chance. La nozione stessa di poesia, se ho capito l’assunto del libro, va letta in stretto nesso con l’idea di utopia (il tema affrontato e dissezionato da Adorno e Bloch nella conversazione citata);6 e con ciò siamo lontanissimi dal discorso corrente, un discorso in cui quella parola, utopia, è passata a significare semplicemente ciò che è irrealizzabile e pertanto una faccenda da perdigiorno, il vaneggiamento di chi è inetto a intendere la realtà – just the way things are –, insomma chi non vuol vedere il dato ineluttabile e definitivo che i giochi sono per sempre fatti e senza ritorno, senza futuro. Non a caso nel suo studio sul Risentimento sociale Jameson data a partire dagli anni di Thatcher e Reagan il discredito, o meglio la progressiva scomparsa del discorso utopico e l’inflazione di quello distopico, che da allora sguazza con sottile e sordido godimento nella comfort zone del disincanto e non è che il risvolto di un anti-utopismo che non si prova neanche a camuffare, tanto è aggressivo e latente un po’ ovunque (fin nell’inconscio). Nelle pagine di Autorizzare la speranza torna invece a risuonare un tono alto e diretto, quello che chiamerei il passo affermativo dell’utopia in cammino: vi si avverte uno scarto, una forma di contrattacco al nucleo nichilista e conformista della Doxa imperante. Insomma il libro nel suo complesso certifica – insieme a pochi altri lavori dei nostri anni – che il vocabolario che ci siamo abituati a usare va ripensato ex novo, riattivato e riformulato in base alla nostra esperienza del presente, purché quest’ultima non sia cristallizzata in categorie e nozioni preconfezionate, bensì pronta a cogliere i segnali del cambiamento e le intermittenze del possibile. È qui che l’arte può riaprire i giochi o prepararne di nuovi, se lavora all’orizzonte del non-ancora-immaginato, avventura conoscitiva e azione anticipante (a questo riguardo in Testa assume rilievo centrale il tema della «capacità di futurazione» della poesia, trattata nel capitolo «Autorizzare la speranza», p. 11) – se è vero che nell’«appello alla verità» si rifrange, ci dice Testa, «l’immagine di una comunità futura rispetto alla quale la poesia si assume il compito di autorizzare la speranza» (p. 8).
Concludo con delle osservazioni magari marginali, ma che consentono di entrare nella struttura del libro, o piuttosto in alcuni aspetti della sua peculiare conformazione. La prima concerne il fatto che all’interno di Autorizzare la speranza ricorrono diversi testi poetici dell’autore, poesie (non firmate) che affiorano come parti e passaggi dello stesso esperimento che assume la forma del saggio; e qui piace notare l’affioramento (p. 89) di versi provenienti da una bella suite dedicata agli ailanti nella raccolta del 2010 di Testa, Luce d’ailanto.7 Forse non si tratta tanto, in questi casi, di citazioni dell’Auctor intese come esemplificazioni a corredo di una qualche teoria, quanto piuttosto “fatti” (fatti poetici), come le fotografie o le immagini disseminate nelle pagine; articolazioni di un lavoro in progress e diversificato su più piani di discorso: una opzione di scrittura, questa, che – in linea con altri esperimenti contemporanei che tendono ad abolire il diaframma (o le gerarchie) tra poesia e prosa – a sua volta sembra rivendicare, proprio per il suo concreto modo di manifestarsi, un moto espansivo ed una esplorazione-riflessione che, mentre procede, interroga il suo proprio percorso e lo rilancia: e con ciò siamo, di nuovo, esattamente agli antipodi di ogni nozione astratta, statica e generica di poesia-utopia, che in quanto tale – reificata e svilita a passatempo come un altro – non può accedere alle forme di conoscenza trasmesse dalla poesia e dall’arte. Occorre dunque, come suggerisce lo stesso impianto del libro, allontanarsi dai sentieri più battuti e omologati, dai luoghi comuni e dalle parole d’ordine epocali, brevettate, interiorizzate e sedimentate fin nel vissuto dei singoli. Qualche esempio se ne può trovare nei riferimenti a Girard, Lasch, allo stesso Adorno: esempi di formule fallaci proprio in quanto si vogliono totalizzanti e normative. In questo senso anche la nota affermazione di Adorno – ma così poco adorniana, a veder bene – per cui «scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie» (p. 137) in Contro la poesia non è presa alla lettera né intesa come prescrizione, ma assunta come contraddizione inerente al fatto poetico stesso. È un’ipotesi che alcuni vecchi maestri hanno insegnato da sempre, e che qui si reincarna nell’ipotesi di una «poesia barbara» e in quella che Testa chiama la «antinomia interna alla struttura della poesia» (p. 142).
Di qui – da questa ipotesi – penso anch’io, si può ripartire, riaprire i giochi. E in tema di ripartenze, noterò che nello stesso saggio ora citato la pagina accoglie brevi riflessioni, appunti e pensieri svincolati dai moduli dell’argomentare lineare-propositivo: brani il cui reiterato incipit è «Se…», come in frammenti che abbozzino già in nuce forme e visioni del possibile, spiragli ipotetici sul nuovo paesaggio che ci circonda: non meri ottativi nel senso del wishful thinking ma saggi, sondaggi, esperimenti inaugurali o brecce, nella direzione a cui accenna nel saggio iniziale una citazione da Hölderlin, dove si dice del «possibile che si manifesta nella realtà quando la realtà si dissolve» (p. 12).
1 I. Testa, Autorizzare la speranza. Giustizia poetica e futuro radicale, Novara, Interlinea, 2023.
2 V. Bagnoli, F. Deotto, «Autorizzare la speranza»: una lettura a più voci #1, in «Nazione Indiana», 10 dicembre 2023.
3 P. Febbraro, Italo Testa e la lezione dell’ailanto, in «Doppiozero», 22 luglio 2023.
4 Vedi F. Fortini, I confini della poesia, a cura di L. Lenzini, Roma, Castelvecchi, 2015.
5 F. Jameson, Risentimento sociale. Sulle alternative al capitalismo sociale [2016], Roma, Meltemi, 2023.
6 Sul tema si vedano i recenti lavori di Rino Genovese, Socialismo utopico, socialismo possibile, Macerata, Quodlibet, 2021, e L’inesistenza di Dio e l’utopia, Macerata, Quodlibet, 2023.
7 In I. Testa, L’indifferenza naturale, Milano, Marcos y Marcos, 2018.