Prismi dell’esperienza
Su Rossana Rossanda saggista
Sabatino Peluso

I

È ancora oggi possibile leggere e proporre la critica marxista? Leggere, proporre; due azioni che, visto l’oggetto a cui si prova ad accostarle, bisogna intanto scomporre, analizzare e disambiguare una a una, partendo da alcune osservazioni generali.

Dopo una stagione piuttosto lunga, segnata da un calo di interesse verso la saggistica, negli ultimi anni si avverte un certo riavvicinamento e ampliamento del pubblico dei lettori di questo genere. Editori grandi, medi e piccoli riservano oggi al saggio uno spazio sempre maggiore nei propri cataloghi: dal personal essay contemporaneo al “classico”, o ancora, dal più articolato saggio di critica sociale o letterario, come anche a un’ampia saggistica di taglio sia scientifico che divulgativo.1 Si leggono saggi, dunque. E, pur in circostanze storiche completamente differenti, verrebbe da sottolineare l’importanza di questo dato, come per quegli anni in cui, specialmente in Italia, il saggio ebbe il suo maggiore impatto sul pubblico di massa. Mi riferisco agli anni Sessanta del secolo scorso, quando una consistente circolazione della saggistica – soprattutto quella che appartiene al ramo della critica della cultura – fece registrare per la prima volta un successo e un impatto notevole su larga scala, con evidenti conseguenze politiche e sociali nel nostro paese; ma fu così grossomodo anche nel resto d’Europa. Oggi editori, riviste, pagine social (perché anche i contenuti che si leggono sui social appartengono al grande contenitore del genere saggistico-argomentativo) esaudiscono e alimentano una richiesta di critica dello stato di cose notevole per dimensioni e spettro tematico. Accanto all’allargamento del pubblico di lettori che si è venuto a creare – e da cui si origina spesso una vivace e ampia sfera di dibattito – è però impossibile non cogliere altri effetti.

Intanto, limitiamoci rapidamente a constatare l’espansione ancor più capillare del mercato culturale (in cui hanno conquistato spazio anche forme orali dell’argomentare, come quelle dei podcast – su piattaforme, anche nuove, spesso a pagamento – che espandono oggi i confini di questa sfera). Tutto – forme, prodotti, protagonisti – esiste finché c’è un mercato a dargli spazio. Possiamo dire che questo corrisponda a un altrettanto tangibile ampliamento della coscienza critica o piuttosto storica dei fenomeni che si mettono in discussione? Pare difficile rispondere semplicemente in maniera affermativa. Guardando bene, infatti, e in ambiti specifici, ancora meno avanzata sembra la consapevolezza su questioni fondamentali, almeno per quelli che sono i risultati che si riscontrano sul piano pratico: il terreno dei diritti, la violenza di genere, la questione del lavoro, la conflittualità sociale-relazionale, e via. Se si guarda al campo teorico-intellettuale poi – da quello progressista o, ancora di più, al cosiddetto “pensiero radicale” (radical thought) – quello che può apparire come risveglio o rinnovamento culturale pare invece più simile a un riflusso postmoderno della cultura, la manifestazione di una sua ultima o tarda fase: si va dalla nostalgia e al riciclo acritico di alcuni nomi e categorie concettuali del passato – spesso forzatamente accostati tra loro –, alla cieca accelerazione culturale, produttiva, materiale. Il risultato è spesso solo un generico washing ben applicato, e/o molta confusione. E una delle modalità in cui si compie tutto ciò è attraverso la produzione e il consumo di testi vecchi e nuovi pronti all’uso, leggibili, citabili, ma spesso privi di supporti, apparati o note capaci di offrire al lettore una chiave d’accesso critico, e dunque anche un reale cortocircuito col presente a partire da quello che viene proposto e letto. Anche per questa via proliferano trend culturali, ismi interpretativi e imperativi politici scanditi al suono di ruggente lessico antagonista e dissidente (con, su tutto, la riscoperta e spesso l’abuso del termine «anticapitalismo», mai così tanto tornato in circolazione), facilmente disinnescato dalla stessa industria della parola che lo produce. Nella realtà pratica, poi: domani esce un nuovo libro, un nuovo tema, un nuovo dibattito; si affoga nella proposta, c’è poco tempo e poco spazio per assimilare criticamente un concetto, per verificarne la storia. E, soprattutto, per costruire una vera coscienza antagonista condivisa. Questo, brevemente, per chi scrive, il quadro di quello che ho indicato come il rapporto tra produzione e lettura di parte, almeno, della saggistica odierna.

Si potrebbe però interpretare tutto ciò anche come espressione di un forte e sano pluralismo. Certo, anche. E di sicuro da questo dinamismo alcuni sapranno trarre beneficio. Ciò che però qui si prova a indicare non è la restrizione dello spazio o del campo della ricerca e della discussione, che, come è facile constatare, è ampissimo, e dunque delle possibilità di conoscenza o allargamento dei temi in agenda; ma, come si è detto, un suo più critico attraversamento. E poi, quali testi possono oggi darci un contributo a una rilettura critica della nostra storia? È anche una questione di scelta.

II

All’inizio di queste note mi riferivo però in particolare al posto della critica marxista in un contesto come questo. Ma questa è discussione ancor più complessa da esaurire in poche pagine, tanto è ampia la parabola del marxismo – specialmente quello italiano – e il suo rapporto con il lettore occidentale medio. E va detto poi, ma soltanto di passaggio, che già il solo impiego di questo termine oggi risulta ancora molto problematico, perfino come riferimento concettuale e storico anche verso un largo pubblico che pur si vuole in lotta contro le ingiustizie del Capitale. Si attraversa un campo teoricamente vasto ma ricco di ambiguità e fraintendimenti, del quale si può però provare a dire qualcosa a partire da alcuni esempi.

Uno di questi lo offre la casa editrice Nottetempo attraverso una delle sue ultime collane di saggistica che, forse non a caso, prende il nome da un libro dei più importanti critici marxisti del secolo scorso. Parlo della collana «Extrema ratio» – titolo del libro di Franco Fortini del 19902 – che oggi, non in nome del marxismo, ma della volontà di costruire un’ampia proposta “critica” (specialmente in ambito letterario), dà accoglienza a una significativa raccolta di scritti di Rossana Rossanda.3

Fondatrice della rivista e poi quotidiano «il manifesto», politica, militante comunista, giornalista, autrice di numerosi saggi e di una delle più significative – almeno per chi scrive – autobiografie degli ultimi tempi (La ragazza del secolo scorso, Einaudi 2005), a tre anni dalla sua scomparsa gli scritti di Rossanda ritornano in circolazione grazie a una serie di iniziative,4 di cui è parte anche Aperte lettere. Saggi critici e scritti giornalistici, a cura di F. de Cristofaro, Roma, Nottetempo, 2023. Volume che, forse più di altri, ha il merito di offrire una visione d’insieme abbastanza ampia dell’attività critica di Rossanda e del suo approccio militante; e, allo stesso tempo, documento che permette di cogliere in maniera chiara l’aderenza alla tradizione marxista di questa intellettuale. Ma vediamo meglio.

Il libro, che è accompagnato da una breve nota introduttiva e una postfazione del curatore (in cui si offre uno scorcio sull’autrice e un’interessante riflessione sulla sua maniera di scrivere, anche esplicativa per alcuni testi), fa intanto molto perno sul terreno culturale e soprattutto letterario come collante per i saggi raccolti. Il lettore qui non troverà infatti scritti di taglio più direttamente politico o legati a fatti di cronaca e attualità – altro filone fondamentale della produzione di Rossanda –, ma attraversa il «canone minimo» della saggista, così come alcune delle sue battaglie militanti su libri, autrici e autori. Anche nel caso di questo libro, va detto, si potrebbe però forse fare un appunto all’operazione editoriale compiuta, ovvero l’assenza (voluta e giustificata nella pagina d’apertura del curatore) di un seppur minimo apparato di note ai testi. Trattandosi principalmente di articoli giornalistici, infatti, credo non sia per niente secondario provare ad aiutare il lettore a ricostruire il contesto di nascita dei testi che qui si attraversano, offrendo dunque qualche utile coordinata di navigazione. Penso, solo a titolo di esempio, al caso dell’articolo “contro” La Storia di Elsa Morante, che fa parte di tutta una discussione, peraltro ricostruita in anni recenti da Angela Borghesi nel suo L’anno della Storia;5 ma questo vale anche se si pensa alla possibilità di permettere di approfondire quei testi che sul «manifesto» furono pubblicati in forma ridotta – vedi ad esempio il saggio su Fortini, Felici incontri e sanguinose rotture, che in forma più estesa fa da prefazione al fondamentale Meridiano Mondadori curato nel 2003 da Luca Lenzini, Saggi ed epigrammi; a mio avviso, tra le pagine più belle scritte su Fortini.

Due sono le parti in cui si divide il libro. Una accoglie tre testi, già editi in volume, dedicati rispettivamente all’Idiota di Dostoevskij, alle Poesie di Emily Dickinson e al racconto di Thomas Mann, L’inganno. Mentre la seconda parte, che tiene conto dell’attività pubblicistica dell’autrice, si divide in sei sezioni tematiche e si tratta, come ho anticipato, di scritti giornalistici apparsi sul quotidiano «il manifesto». L’arco temporale complessivo è ampissimo: dal 1972 al 2018, cioè fino a due anni prima della morte di Rossanda, quando questa ricomincia a scrivere sul quotidiano comunista con una certa regolarità, e tra le sue prime riapparizioni c’è una recensione (che è al tempo stesso una testimonianza autocritica) dedicata a Dieci inverni del suo Fortini.6 Il suo Fortini, perché Attraverso Fortini è anche il titolo della sezione con cui si chiude il volume, dove da un lato si leggono alcune delle testimonianze del dialogo-confronto con uno dei poeti e saggisti da lei più amati, quanto – in controluce – riflessioni sulla funzione Fortini nella sua parabola intellettuale. Assieme alle altre cinque sezioni – per un totale di trentatré testi – il libro spazia dai problemi dell’industria culturale a quello del ruolo della critica, passando per la lettura di autori contemporanei e la rilettura di alcuni classici, che offrono via via occasione per discutere della “condizione umana” (che è forse proprio il nucleo centrale delle preoccupazioni di Rossanda). Infine, posizione centrale (anche come collocazione nel volume) è affidata alla sezione Femminismo critico; ma qui c’è più di questo.

Suggerirei infatti più livelli di lettura per quest’ultimo tema. Intanto, la sua presenza come sezione a sé stante sottolinea il rilievo (e l’urgenza) all’interno delle questioni care a Rossanda. Partire da questo semplice dato ci permette di inquadrare inoltre l’espressione “femminismo critico” anche ad un altro livello, e cioè come chiave del metodo militante dell’autrice, e questo per via di come la maggior parte dei saggi qui raccolti dispiegano – oltre a una critica al femminismo della differenza – una visione femminista e critica altra, che si sviluppa attraverso temi e testi; che si propone come ragione altra rispetto a quella o quelle dominanti negli anni in cui Rossanda scrive. La visione critica-affermativa-assertiva di Rossanda – con il suo femminismo critico – si prende insomma il suo spazio ben oltre i confini di questa sezione, a partire da un posizionamento di chi scrive nel campo culturale radicalmente soggettivo (nel senso sia di “politicamente radicale” che di “totalmente” soggettivo). E di questo metodo si trova traccia, appunto, in ogni scritto.

Leggo a pagina 34. Commentando un’immagine tratta da una celebre poesia di Emily Dickinson – quella del “tramonto in una tazza di tè” – Rossanda afferma di notare nella scrittura di questi versi «una eco della persuasione che tutto si riflette nel prisma dell’esperienza morale individuale e perfino, soprattutto, nella gestualità quotidiana». È un’espressione che mi è rimasta in mente per tutte le oltre duecento pagine che compongono il libro e, mano mano che andavo avanti leggendo, mi è parso di vederla sempre più come una definizione molto calzante dell’approccio alla scrittura di Rossanda. Lì, nella Dickinson, i versi; qui, in Rossanda, la prosa saggistica: gesti quotidiani, segni dell’esperienza morale individuale per ambedue; prismi dell’esperienza critica. Scrivere a partire da un libro, da un’occasione, o scrivere sullo scrivere – ovvero sul senso stesso della critica militante – e sulla sua funzione sul soggetto, sono trasformazioni, rifrazioni frutto di echi della persuasione che anche il discorso più diretto sia un momento dialettico dell’esperienza storico-individuale. Fasci di luce. Ma Rossanda è consapevole che il suo discorso, come quello di ogni autobiografia, è parziale, ma non per questo meno necessario. E questo è già un dato tutto interno non soltanto al suo approccio critico, al suo posizionamento nel campo del conflitto culturale, poiché è anche un nodo teorico-pratico decisamente, volutamente esposto attraverso la sua scrittura; la postura autobiografica del suo io scrivente. Non negandola, questa postura, Rossanda può affermare questa parzialità, offrirla come parte di un contributo che getta luce sulla Storia.

In più occasioni, infatti, Rossanda ha affermato che confrontarsi con la scrittura ha significato per lei abbandonare la terza persona per adottare la prima, come mezzo più adatto per lasciare traccia sulla pagina della conflittualità e contraddittorietà col presente dell’io scrivente. Vengono qui in mente allora le pagine di La ragazza del secolo scorso – che invito a rileggere, in questo senso, anche come saggio sul “fare Storia” – che ha peraltro con Aperte lettere non pochi punti di contatto; ed è questo un tratto che a mio modo di vedere mette ancora più in luce quel valore prismatico dello scrivere che ho proposto poco fa, come essenziale gesto quotidiano e, assieme, nodo critico-testimoniale fondamentale.

Impossibile rendere conto della totalità di temi, autori e libri su cui si concentra questa gestualità, così come delle sue modalità. Ma, sempre in linea di continuità con questo discorso che riflette sui nessi tra scrittura, gesto critico e Storia, mi limito a sottolineare un dato non secondario, che rappresenta un punto fondamentale del volume, e cioè il ventaglio di scelte stilistiche adottate da Rossanda e ben in evidenza nei testi qui raccolti.

Si è già in parte anticipato infatti che mentre la prima parte del libro presenta testi di taglio più strettamente e distesamente saggistico-argomentativo (tra cui troviamo anche un’intervista), la seconda invece spazia dall’intervento corsivo breve – tipico del giornalismo militante – alla pagina autobiografica, per giungere fino alla forma lettera – altra maniera del saggio come forma. E, proprio su quest’ultimo punto, segnalo la splendida lettera dal titolo Il romanzo della responsabilità, indirizzata a Gabriel García Márquez – (che comincia così: «Gabriel, ho letto la Crónica [Cronaca di una morte annunciata, 1981] come nessun altro dei tuoi libri») –, forse uno dei testi più struggenti del volume per profondità soggettiva e tensione critica. Ma vale la pena citare un breve passo capace di mettere in luce il valore di questo aspetto all’interno di un quadro complessivo che prova a interpretare la figura e la voce di Rossanda. Qui, infatti, lei scrive:

«Non tacciamo davanti agli esiti delle rivoluzioni, cui abbiamo dedicato la vita, per paura che cada l’idea di rivoluzione, e così la lasciamo assassinare e assassinarsi, divenuta fragile perché simile all’avversario? Chi crede che la rivoluzione era un’utopia può tacere; ma chi non lo crede, non è simile a tutti coloro che tacciono davanti alla morte annunciata ed inevitabile? (p. 201)

III

Due,dunque, sono i termini chiave del libro che a mio avviso rappresentano le lenti con cui Rossanda si rivolge alla materia che tratta (e che, tra le varie, impiega parlando di figure come Simone de Beauvoir, Virginia Woolf, Jean-Paul Sartre, Christa Wolf, Italo Calvino, Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante, ecc.): critica e femminismo. (O ancora, se vogliamo adottarla come proponevo poco fa, la categoria di “femminismo critico”). Quando Rossanda scrive, seguendo un’impostazione che ha come obiettivo centrale il proporre una profonda critica della cultura, ha un ventaglio di problemi da prendere in considerazione ampissimo: dal quello del corpo a quello della morte, da quello dell’io e della soggettività a quello della coscienza di classe (il noi per cui sta parlando, sempre in relazione all’io che scrive); molteplicità di angolature ma, soprattutto, di sensibilità, critiche, intellettuali, umane. Sotto lo sguardo complessivo che queste lenti producono emerge allora anche un terzo termine, uno di quelli che Rossanda ha più a cuore mentre scrive e che rappresenta una stella polare nella sua prospettiva, ovvero il termine «libertà» – parola, vorrei aggiungere, oggi abusata al punto tale da risultare quasi impronunciabile. Per raggiungerla occorre, come prova a fare Rossanda, costruire una critica che accolga in sé la capacità di raccogliersi attorno al proprio io sociale, intellettuale e individuale-biografico, demistificandolo. Critica, comunista, donna; scrivere partendo dalla consapevolezza di questi dati, così come delle contraddizioni che tale soggettività socio-storica racchiude in sé mentre si espone, è allora per l’autrice questione vitale e per niente risolta o pacifica. Da questa angolatura, il prisma della scrittura fa ancora una volta da lente per un’altra versione della storia collettiva e culturale. E lascia allora una traccia, quotidiana, fulminante, affermativa e definitiva di sé.

Ma cosa vede e cosa afferma questo sguardo? Ecco uno spunto.

Se per Rossanda l’antifascismo in Italia non ha significato partecipare anche alla lotta di classe, così come il comunismo del Partito comunista (ma anche dei vari movimenti della sinistra extraparlamentare) non ha significato adottare il punto di vista marxista, neanche il femminismo allora – ovvero il femminismo della differenza – ha saputo sempre offrire un contributo alla liberazione della donna. Sono riflessioni, queste – precisiamo –, che Rossanda ha provato a sviluppare e sostenere per tutta la vita attraverso un processo di elaborazione critica che, come ho detto, parte in primo luogo dalla messa in discussione di se stessa. Si tratta inoltre di punti teorici molto ampi e complessi da trattare in poche righe e senza correre il rischio di riduzioni e banalizzazioni. Per questo motivo, perciò, tra i vari contributi di Rossanda che su questo tema si potrebbero indicare,7 ci tengo a rimandare a una breve ma densissima intervista8 che Rossanda ha rilasciato nel 1997, e in cui vengono toccati con grande chiarezza e profondità (ma accurata sintesi) alcuni dei nodi cruciali che servono a comprendere tanto il pensiero di Rossanda quanto il significato di alcuni dei problemi coinvolti (capitalismo, marxismo, femminismo, lotta di classe e altre questioni imprescindibili per Rossanda). Ma proviamo almeno, attraverso alcune pagine di Aperte lettere, a intendere bene come sviluppa il processo critico dandone un accenno.

Tra femminismo e marxismo, come metodo e punto di vista critico, nella prospettiva di Rossanda è il materialismo storico ad avere un peso e uno spessore interpretativo e dialettico maggiore, e questo perché esso gli consente di comprendere come ogni fenomeno di cultura sia al suo interno compromesso con le rappresentazioni (auto-rappresentazioni – e illusioni) dello spirito storico, dello spirito del tempo: anche lo spirito assoluto, metastorico, che il pensiero femminista delle sue coetanee propongono:

[l’occhio femminista si rileva] nella sua difficoltà a costituirsi come principio di riorganizzazione di rapporti diversi, terreno scivoloso e manipolabile. Una volta si diceva “riassorbibile”. Anzitutto, con qualche tocco sapiente, la “differenza” torna a diventare merce. Che lo diventi è, paradossalmente, prova del suo spessore come bisogno, non solo delle donne: non tutto può diventare merce di grande consumo. (pp. 126-127)

Contro la dominante o incalzante convinzione femminista nella possibile estraneità, nella possibile autonomia del singolo e nella negazione assoluta proposta da questo e altri modelli culturali (tra anni Sessanta e Ottanta), che non possono che portare, invece, per Rossanda, a una “mestissima libertà” – vedi il bellissimo saggio L’uno e il due, in cui l’annullamento (dell’uno e dell’altro come realtà al tempo stesso psichiche e storiche) non porta all’accettazione della parziale autonomia propria e dell’altro, necessaria per «essere due»9 –, Rossanda propone un’altra idea di libertà, andando verso una prospettiva che a me pare convergere in una teoria hegeliana e marxista del riconoscimento.

Ancora; mentre articola una discussione con le compagna femministe, a partire da una lettura di Le tre ghinee di Virginia Woolf («il testo più povero che avesse mai scritto»), scrive:

C’è un paradosso nel discorso che le mie amiche femministe fanno sul potere: sono convintissime che esso è il nemico, ma non un così grande nemico, giacché sarebbe padrone di un terreno dal quale ci si può tirare fuori. Non dunque così terribile: come quella guerra, appunto, che la derisione delle “estranee” potrebbe in futuro impedire. Pensano, le mie amiche, che come nella novella di Andersen basti gridare “Ma l’imperatore è nudo” perché quello sprofondi. Invece non sprofonda affatto. La cognizione del potere non ci rende liberi da esso, come quella del dolore non ci risana. O il potere viene spezzato oppure gridargli “Sei ridicolo, non ci sei, non ti vedo”, non è più che l’indispettito colpo di spillo d’una infelice signora inglese.

Non dobbiamo dirlo alle donne che ci ascoltano? Perché esse sono (noi siamo) tentate da quel margine di estraneità che è stato regalato alla nostra oppressione; la grande illusione di non essere “nella” storia, e quindi di poter rimandare di intervenirvi, perché o è troppo presto o è troppo tardi o comunque il terreno è un altro. Questa chimera è propria soltanto dell’oppressione femminile, e non a caso: nel rapporto di soggezione dall’uomo è infatti anche in atto un tacito patteggiamento, di cui fa parte il “non mi/ti riguarda”. Esso comporta qualche comodità. Dalla quale occorre liberarsi come dal laccio più pericoloso. […] le donne si credono fuori da qualcosa che le avvolge fino al collo e che, direbbe Virginia, ignorano e le ignora. È l’organicità del sistema dei rapporti sociali – tanto connesso quanto più siamo nei punti alti – che taglia in radice la possibilità di essere “estranee”. (pp. 134-135)

Ma, accennavo in precedenza, non occorre arrivare alle pagine della sezione da cui è tratta quest’ultima citazione per conoscere l’altra idea di libertà a cui ragiona Rossanda. La si legge già prima, nel libro, mentre parla della Maria Aleksandrovna di Tolstoj del suo racconto La felicità domestica (all’interno dello scritto Eloisa e Maša. L’amore inquietante). Qui Rossanda cammina sul tema dell’amore, partendo dall’idea che:

Forse dovremmo, noi donne d’oggi, visitare quelle che ci hanno preceduto con un’ipotesi più complessa dell’autonomia del nostro sesso. E guardare con attenzione a quel che gli uomini hanno pensato e scritto di noi. […] Ci comportiamo come le minoranze radicali di colore, ma non siamo una minoranza, né un’etnia, né un gruppo sociale: semplicemente, e assai di più, un sesso. Uno dei due.

Che l’altro ha pensato e qualche volta visto. Una visione bruciante che lo induce a una serie di esorcismi; come se temesse una parte di sé che gli riveliamo. (pp. 92-93)

Attraverso «l’insostenibile contraddizione di Tolstoj», Rossanda riflette sull’amore come «patto sociale», e lo fa a partire dalla demistificazione di come anche la visione patriarcale si rovesci e mostri nell’uomo, con annessi tutti i suoi stereotipi, convincimenti, ma anche momenti di verità (una verità culturale, che ancora ci condiziona – anche e soprattutto, direi, nella rappresentazione che essa fa delle donne e su cui oggi siamo ancora di più chiamati a riflettere). «Amare, pensa Maria Aleksandrovna, apre gli scenari dell’esistenza; e lo dice Maša-Tolstoj, con straziante convinzione. Ma Tolstoj-Tolstoj ne ha paura».

Il guaio con La felicità domestica è che Maria Aleksandrovna a Tolstoj è sfuggita di mano. […] vuole una vita regolare. Ma “voglio viverla. Viverla come te”. Come lui. Non accetta la paralisi del cuore, delle idee, la signora acquietante delle abitudini. Tolstoj ci spaventa: “Che vergogna, che vergogna”. Per un uomo. […] Quale fantasma della donna sta in quel maschile che respingiamo, come se avessimo paura di guardarlo? (p. 94)

Riconoscimento della parzialità individuale e di genere (tanto femminile quanto maschile) come della parzialità e rottura dell’autonomia del singolo; ma ancora, al tempo stesso, del condizionamento che su essa stessa grava a partire dall’altro o l’altra, sotto al peso della cultura e della natura umana, della sua stessa complessa biologia sociale. Riconoscere questa forma fragile di libertà in sé e nell’altro vale a dire, e a raggiungere, il liberarsi di paura e vergogna, poter affermare e ascoltare assieme. In ultima istanza, possibilità di intendersi, avvicinarsi, per un patto tra psiche e storia, corpo e bisogno. Forma di libertà che non può realizzarsi in uno, solo e assoluto, tanto nella cultura come nella società capitalistica.

IV

È possibile proporre al pensiero attuale, alla cultura attuale, pagine come queste? È possibile chiarire che il contributo della critica marxista su questioni urgenti, come quelle che qui si affrontano, possono aver bisogno di una ragione altra con cui confrontarsi per far luce su se stesse? Possono queste contribuire alla sua elaborazione? Forse bisognerebbe avere una più libera coscienza e fare vero spazio al negativo che ci attraversa e che ci costituisce, dialettizzandolo; ritenersi meno estranei e più compromessi di quanto si crede nella propria singolarità nel mondo e estraneità al mondo. Il che è difficilissimo. Ma questo passa anche dai modi in cui veniamo informati dei fatti che determinano le nostre scelte. Questo, infine, credo sia il punto convergente della nostra discussione sul posto della critica marxista oggi, ovvero della sua funzione all’interno della realtà culturale, materiale, editoriale e, da queste porte di passaggio, infine sociale. Lo sapeva Rossanda quando scriveva: «Sembri potente anche se scrivi su un foglio esilissimo», (p. 82), frase nella quale è possibile leggere più livelli di consapevolezza e problematicità, che essa stessa ha continuato a porsi. Ma proprio per questo, rileggendo queste pagine, si potrebbe intanto cogliere l’invito e lo spunto che un testo come quello di Rossanda offre, ovvero il suggerimento di provare a rifiutare l’immediatezza delle interpretazioni che ci diamo o che ci danno, già servite e concilianti, e passare per più livelli di mediazioni, di spiegazioni del mondo. Accogliere il contributo di chi ci ricorda, come fa Rossanda (e assieme a lei Fortini – tanto è il peso del loro dialogo e dei loro risultati), che bisogna non solo raccontare ma anche spiegare, e che le due operazioni possono avvenire nello stesso momento e sulla stessa pagina. E che «chi non spiega è responsabile».

Note

1 Per un rapido inquadramento generale di questo scenario, utile al discorso che qui si propone, è a mio avviso interessante fare riferimento al lavoro di inchiesta condotto negli ultimi anni dalla rivista «L’indiscreto» attraverso la Classifica di qualità, rubrica attraverso la quale, dal 2019, la rivista tenta di offrire una panoramica su quanto di meglio viene pubblicato sia da autori italiani che stranieri in Italia. A differenza delle classifiche di vendita, che sono a loro modo indicative per una serie di dati di rilievo, attraverso le classifiche stilate dal gruppo di lettori-critici della rivista è intanto possibile notare la vivacità e ampiezza del panorama editoriale odierno, entro il quale trovano spesso spazio libri che incontrano un certo successo di pubblico pur non godendo della visibilità offerta dalle case editrici che appartengono ai grandi gruppi editoriali. Da ciò deriva poi che a farsi promotori dei saggi più interessanti pubblicati negli ultimi anni sono spesso soprattutto realtà editoriali medio-piccole e indipendenti, che diventano piattaforme capaci di ampliare tanto la proposta saggistica (nelle sue varie forme) quanto il dibattito culturale del nostro paese – con scelte talvolta coraggiose e di rilevo. Partendo dall’osservatorio messo a disposizione da «L’indiscreto» emerge dunque molto di più del semplice andamento del mercato editoriale in relazione al genere saggistico, poiché ciò che si tenta è una valutazione in senso più marcatamente critico del valore delle pubblicazioni che, per una ragione o per un’altra, negli ultimi anni hanno guadagnato l’attenzione sia della critica sia del vasto pubblico di lettori a cui faccio riferimento: un pubblico, sottolineo, non solo specialistico ma anzi particolarmente variegato. E, aggiungerei, ciò consente anche di osservare e tentare un bilancio delle principali tendenze culturali degli ultimi tempi.

2 F. Fortini, Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, Milano, Garzanti 1990.

3 Otto sono i titoli finora in pubblicati che si possono consultare nel catalogo della collana, con un ventaglio di nomi assai eterogeneo.

4 Mi limito a segnalare qui soltanto alcune di queste iniziative e pubblicazioni. Tra le ristampe, vedi R. Rossanda, Le altre. Conversazioni a Radiotre sui rapporti tra donne e politica, libertà, fraternità, uguaglianza, fascismo, resistenza, stato, partito, rivoluzione, femminismo, Milano Bompiani 1979, ora Roma, Manifestolibri 2021; tra le nuove raccolte, invece, oltre ad Aperte lettere, vedi R. Rossanda, Volti di un secolo. Il Novecento in 52 ritratti, a cura di F. Moretti, Torino, Einaudi 2023; tra gli inediti, vedi R. Rossanda, Un secolo, due movimenti. Comunismo e femminismo, tracce di una vita, a cura di M.L. Boccia, Roma, Futura 2022; su Rossanda, invece, vedi la recente monografia di A. Barile, Rossana Rossanda e il PCI. Dalla battaglia culturale alla sconfitta politica (1956-1966), Roma, Carocci 2023.

5 A. Borghesi, L’anno della Storia 1974-1975. Il dibattito politico e culturale sul romanzo di Elsa Morante. Cronaca e Antologia della critica, Macerata, Quodlibet 2018.

6 Mi permetto un aneddoto, da curatore della ristampa di questo libro di Fortini, perché credo riveli molto dello spirito militante e del valore che l’autrice dava tanto al libro di Fortini quanto alla funzione dello scrivere nella sua prospettiva. Inviai il libro a Rossanda pochi giorni dopo la sua uscita. Tommaso Di Francesco (allora condirettore del giornale), che ancora ci tengo a ringraziare, mi mise in contatto con lei e glielo fece recapitare. Passarono credo soltanto uno o due giorni per veder pubblicate le parole di Rossanda sul «manifesto». Quanto avesse ancora per lei a che fare con il nostro presente il decennio 1947-1957 – e le analisi di Fortini – lo dice già solo questo ennesimo, minuto episodio del suo quotidiano ricorrere allo scrivere.

7 Fondamentale, a proposito, è il recente inedito pubblicato recentemente che verte proprio sulle affinità e divergenze tra comunismo e femminismo: R. Rossanda, Un secolo, due movimenti cit.

8 Addio Rossana Rossanda, Rosa-Luxemburg-Stiftung, YouTube, 28 ottobre 2020.

9 Partendo da Kafka, Rossanda parla di una «spirale negatrice»: «Il solo non comunica, teme la comunicazione, perché nelle sue falle un altro può insinuarsi. Il solo o è uno, chiuso in difesa davanti all’altro, o rischia di diventare meno che uno, assorbito, infranto dall’altro. Poter essere “due” significa dunque poter essere uno senza paura, senza temere la propria fragilità, aver ricevuto chissà quando chissà dove una legittimazione. Poter contare fino a due, […] restando te stesso e accettando l’altro – l’altra» (pp. 210-211).