Per una nuova
analisi di classeIl significato dell’inchiesta
Edoarda Masi, Alessandra Reccia,
Luciano Vasapollo
Dall’esperienza di Rileggere Marx, organizzato dal “Gruppo Universitario Intrecci”, dalla Rete dei Precari dell’Università di Siena e dal Centro Interuniversitario Franco Fortini, sono venuti diversi spunti e temi di questa rivista. Ci sembra dunque importante non disperdere quel patrimonio e farne una base condivisa per ulteriori discussioni.
Alessandra Reccia: Il ciclo di seminari di Rileggere Marx prevede oggi un incontro sull’«inchiesta». I nostri ospiti sono Edoarda Masi – studiosa di storia, letteratura e politica cinese, per molti anni docente di letteratura cinese presso l’Università Orientale di Napoli, traduttrice di alcuni capolavori come Il sogno della camera rossa e di alcune opere di Lu Hsun – e Luciano Vasapollo, docente di Statistica aziendale all’università La Sapienza di Roma, direttore del Cestes (Centro studi trasformazioni economico-sociali) e di «Proteo», rivista che si occupa di analisi delle dinamiche economico-produttive e di politiche del lavoro. Tra i suoi numerosi libri ricordiamo L’uomo precario, Eppure il vento soffia ancora, che tra l’altro presenteremo domani (cfr. trascrizione incontro) e L’acqua scarseggia ma la papera galleggia, sull’economia cubana.
Dagli incontri precedenti del nostro ciclo possiamo dire di aver capito due cose almeno: la prima è il carattere temporale del modo di produzione capitalistico e la seconda è lo sfruttamento del lavoro salariato che è insito in questo modo di produzione e il suo occultamento. Queste due affermazioni sono, possiamo dire, verificabili teoricamente ed empiricamente. Nel modo di produzione capitalistico il livello di certificazione dello sfruttamento però si complica, non è semplice. Il nostro compito, allora, in questo momento, come lavoratori all’interno di una struttura come l’università, è capire, se, come e in che modo noi facciamo parte del processo di produzione capitalistico e come garantiamo con il lavoro di ricerca e didattica la produzione. Anche quando studiamo Dante, e quindi non entriamo direttamente nel circuito produttivo, e non solo quando facciamo l’analisi delle acque minerali, garantendo così alle multinazionali la manodopera e le strutture. Quando ce la raccontiamo tra di noi la nostra situazione, per quanto grave, ci sembra comunque “naturale”. Volendo parlare degli universitari, dei dottorandi per esempio, questi si considerano fortunati perché almeno per tre anni hanno uno stipendio assicurato; i ricercatori, gli assegnisti sono speranzosi perché pensano «chissà dopo cosa accadrà?»; i docenti a contratto cominciano a rassegnarsi solo dopo qualche anno. Eppure ogni volta, e per ognuno di questi, ciascuna di queste fasi è vissuta come una fase normale, una fase naturale, e più regrediamo al semplice stato di lavoratori, alla condizione di operai della conoscenza più perdiamo il senso del nostro ruolo nell’ambito della divisione internazionale del lavoro. Ora, quando uso la definizione “operai della conoscenza” non la uso in senso mitico, ma per operai della conoscenza intendo quei lavoratori subordinati, senza capitale di base e che posseggono solo la loro forza-lavoro, con una serie di competenze più o meno scientifiche che possono essere usate tanto per la costruzione di macchinari di ogni sorta, tanto per il loro uso e che svolgono un’attività che, nonostante le apparenze, è direttamente legata ai processi produttivi. Il mercato dell’editoria è soltanto uno dei possibili esempi.
Tutti i prodotti della conoscenza non vengono considerati merci, ma in realtà lo sono, se è vero che tutto ciò che si produce all’interno del processo capitalistico assume questa forma.
In queste condizioni, i cosiddetti intellettuali sono ridotti a semplici lavoratori, cioè perdono la loro caratteristica principale che è l’intellettualità, e cioè la capacità di ragionare sui processi e si ritrovano completamente immersi nei processi di produzione del capitale.
A questo punto tutte le nostre rivendicazioni specifiche, anche quelle che portiamo avanti come Rete dei Ricercatori Precari (RRP) rischiano di diventare rivendicazioni parziali e di essere facilmente assorbite se non si organizzano verso una rivendicazione più generale e cioè capace di mettere in luce il conflitto capitale-lavoro, recuperando il senso specifico del lavoro intellettuale. Questa rivendicazione però non è esclusiva dei lavoratori della conoscenza, in quanto tutti i lavoratori presentano uguali esigenze. Non diciamo che le condizioni sono le stesse, ma diciamo che tutti questi lavoratori, siano essi della conoscenza o telefonisti dei call-center, stanno sullo stesso piano in quanto svolgono lo stesso ruolo nei confronti del processo di produzione. Ecco perché bisogna recuperare il ruolo dell’intellettualità intesa come comprensione della realtà lavorativa in cui ci si trova a operare. L’inchiesta può diventare a questo proposito un utilissimo strumento di comprensione, di analisi del processo di produzione e di autoanalisi della nostra condizione lavorativa ed è strumento, insieme alla teoria politico-economica di Marx, insito nel metodo di Marx stesso. Si tratta per noi di recuperare una tradizione attiva. Ecco perché abbiamo invitato questi due ospiti a cui lasciamo la parola.
Edoarda Masi: L’inchiesta di cui qui intendiamo parlare non è la pratica di routine per i sociologi, anche se di quella pratica può utilizzare ove occorra alcune tecniche. Si tratta di uno fra i metodi con i quali un determinato soggetto prende contatto diretto con la realtà conducendo una ricerca sulle condizioni oggettive e soggettive di individui e gruppi sociali – dove tutti, indagatore e indagati, siano a un tempo soggetto e oggetto della ricerca.
Si può condurre questo tipo di inchiesta principalmente per verificare delle ipotesi; oppure principalmente per iniziare la conoscenza di una realtà ignota o poco chiara; in ogni caso, per iniziare con i soggetti indagati un rapporto di reciproca pedagogia. Mi limiterò qui a portare due esempi: l’inchiesta concepita da Marx nello schema di questionario per la «Revue socialiste» di Benoît Malon, 20 aprile 1880; l’inchiesta concepita e praticata da Mao Zedong sui contadini nella provincia del Hunan nel febbraio 1927. L’uso che il gruppo dei «Quaderni rossi» fece della prima esplicitamente, e implicitamente della seconda, ci conduce più vicino ai problemi del presente. Deve esser chiaro però che anche nel caso in cui con l’inchiesta si intenda iniziare la conoscenza di una realtà non pregiudizialmente definita non si parte da zero. È inevitabile un insieme di presupposti iniziali, diciamo di postulati – relativi quanto meno al metodo. Quanto più i postulati saranno espliciti, tanto più il percorso sarà chiaro e non viziato da falsa coscienza. Il postulato molto generale da cui partiamo in questo nostro discorso è il fine politico-sociale della trasformazione dello “stato di cose presente” (a monte del quale stanno i giudizi, non necessariamente “oggettivi” – secondo i cultori della scientificità neutra e non di parte – su tale “stato di cose”).
L’inchiesta di Marx ha per oggetto gli operai nella fabbrica. Infatti nell’elaborazione teorica di Marx la classe operaia è, del capitale, la componente produttrice fondamentale e la fondamentale contraddizione antagonistica. “Nessun governo, sia esso monarchico o repubblicano borghese, ha osato mai intraprendere una inchiesta seria sulla situazione della classe operaia francese”, scrive nell’introduzione (“francese”, perché scriveva su una rivista francese). Lo schema si divide in quattro capitoli. Nel primo, le domande vertono sul tipo di impresa, numero, età e sesso dei lavoratori, condizioni ambientali, misure di sicurezza, eventuale lavoro a domicilio. Nel secondo capitolo, ci si occupa della giornata lavorativa (orario di lavoro, impiego di donne e fanciulli). Il terzo capitolo riguarda i contratti di lavoro e le paghe, anche in rapporto con le spese necessarie del lavoratore (incluse le tasse). Seguono domande sui salari in generale, sugli effetti dell’introduzione di nuova tecnologia sull’occupazione e sui salari, sulle pensioni. Il quarto capitolo è dedicato alla resistenza e alle organizzazioni degli operai, alle reazioni padronali conseguenti, alle mutue, alla eventuale compartecipazione dei lavoratori ai profitti.
Questo breve riassunto non vale a dare l’idea di quel che sia realmente il questionario. Le domande si susseguono numerose e precise, si concatenano in una logica implacabile, sottintendono un’analisi in profondità fatta in precedenza. A verifica è posta una teoria già ampiamente costruita, anche nei dettagli. Ma sul fine stesso della verifica sembra prevalere quello pedagogico. Il susseguirsi di domande sembra voler indurre l’operaio a una riflessione e a una presa di coscienza critica su fatti ai quali probabilmente non ha dato peso, che gli sono stati presentati come naturali e ora potrebbero apparirgli sotto altra luce. Insomma, è palese il proposito primario di indurre l’intervistato a pensare e giudicare. Il fine pedagogico discende dall’assunto di Marx che la liberazione dei lavoratori può avvenire solo ad opera di loro stessi. Nello stesso tempo, egli parte dalla convinzione di possedere, quale intervistatore, conoscenze teoriche che l’intervistato non possiede e che gli vanno trasmesse, sia pure in forma dialogica. La verifica di quelle conoscenze teoriche, pur presente, è relativamente secondaria.
Se pensiamo ai fiumi d’inchiostro versati per discutere sull’origine della coscienza di classe, alimentata dall’interno o indotta dal di fuori, la lettura di questo schema d’inchiesta appare come l’uovo di Colombo. L’intervistatore (attivista colto) parte chiaramente da sue ben maturate convinzioni; ha certo l’arma del questionario nelle mani, a condizionare in parte l’intervistato; ma questi è sollecitato a riflettere in termini tali, da poter smentire gli stessi pre-giudizi dell’intervistatore: insomma, il quadro è quello di una libertà reciproca, illuministicamente intesa. Non esiste in nessun caso una garanzia contro le trappole ideologiche dell’illuminismo e la formazione di falsa coscienza; ma un metodo simile a questo è comunque assai più rispettoso della personalità degli individui di quanto non lo siano i culti populistici delle cosiddette “soggettività” in auge nei nostri anni settanta, che hanno finito per creare, da un lato, la mitologia della classe operaia e per condurre, dall’altro, al culto della asocialità solipsistica così funzionale agli interessi del nemico di classe.
Il Rapporto d’inchiesta sul movimento contadino nel Hunan è il testo più famoso di Mao Zedong, e uno dei capolavori della saggistica politica del Novecento. Della prima parte, La rivoluzione nelle campagne, vi leggo il capitolo iniziale, Importanza della questione contadina:
Seguono la mia inchiesta e le mie opinioni, scritte in diversi capitoli, per essere esaminate dai compagni rivoluzionari.
Per comprendere il significato e le intenzioni di questo rapporto è indispensabile un brevissimo accenno al contesto in cui si svolge. Nei primi anni venti, su direttiva della III Internazionale, il partito comunista cinese costituisce un blocco col partito nazionalista – Guomindang (viene detto “blocco interno”, perché i membri del partito comunista diventano membri anche del Guomindang, che rappresenta gli interessi della cosiddetta “borghesia nazionale” – tuttavia fortemente legata alle vecchie classi possidenti agrarie, che in teoria dovrebbe combattere). Il fine comune è la liberazione della Cina dai signori della guerra che si sono impadroniti delle diverse province e del governo centrale a Pechino, e la fondazione di uno stato indipendente. Questa alleanza, fallimentare, si concluderà proprio nell’aprile 1927 col voltafaccia di Jiang Jieshi e il massacro di migliaia di operai, sindacalisti e comunisti a Shanghai – episodio che, insieme con la tragedia della Comune di Guangzhou alla fine di dicembre, distruggerà l’ipotesi di una rivoluzione operaia in Cina.
I comunisti come Mao Zedong, e il suo maestro Li Dazhao, contro le rigidità di un pensiero che, nato in Europa per interpretare la società europea, diventava in Cina vuoto dogma se applicato alla lettera, si erano resi conto che nell’era della colonizzazione mondiale i soggetti principali della lotta contro il capitale in Cina, coloro che costituivano la massa più numerosa e possente di lavoratori e ad un tempo i più sfruttati, coloro che “non avevano da perdere che le loro catene”, erano i contadini. Questa convinzione, basata sull’evidenza dei fatti, non era però stata elaborata in una teoria organizzata, non solo per la complessità della questione ma anche perché il partito comunista cinese era subalterno alla III Internazionale, anche sul piano della teoria. Durante la “spedizione al nord” contro i signori della guerra da parte delle “forze rivoluzionarie”, cioè esercito del Guomindang più Partito Comunista Cinese, esplose la rivolta dei contadini, che trovarono in quella spedizione un’occasione per liberarsi dalla soggezione ai proprietari. Ma la cosa non fu bene accetta dalle “forze rivoluzionarie”, cioè dal Guomindang, che rappresentava classi proprietarie, sia pure con pretese politiche di modernizzazione. I dirigenti comunisti erano legati mani e piedi al Guomindang, almeno ufficialmente. In questo contesto si svolge l’inchiesta di Mao, che rivela nel modo più chiaro la reale lotta di classe: e anche come nei giudizi opposti sul comportamento dei contadini in rivolta siano evidenti le posizioni delle classi in conflitto. Il valore dell’inchiesta sta nel fatto che questa verità scaturisce dai fatti, non da una dottrina prefabbricata né da qualsiasi preconcetto.
Nei primi anni sessanta, quando Raniero Panzieri riunì a Torino il gruppo di giovani dei «Quaderni rossi», mentre il boom economico cambiava in gran parte la faccia della società italiana, nei partiti dei lavoratori, socialisti e comunisti, e se pure in misura minore nei sindacati, si rilevava un distacco crescente fra la base da un lato, e le dirigenze e gli apparati dall’altro. La crisi aveva origine non solo nei fenomeni di burocratizzazione e del poco ascolto dato alle voci dei lavoratori ma anche nelle scelte di compromesso con gli esponenti politici ed economici dell’avversario di classe fatte a partire dal dopoguerra dai partiti della sinistra. Era anche collegata al lungo percorso involutivo dell’Unione Sovietica, segnalato ormai da decenni dai marxisti critici (fino allora minoranza intellettuale) e negli anni seguiti alla morte di Stalin divenuto di pubblico dominio (in seguito al XX congresso, ai fatti di Ungheria e di Polonia, e anche per la critica condotta dai comunisti cinesi); ma, da noi, senza chiarezza né chiarificazioni. La gestione autoritaria da parte dei dirigenti dei partiti dei lavoratori si accompagnava sempre più alla svendita dei contenuti socialisti nella loro politica (revisionista, come dicevano alcuni). Nei primi anni sessanta era grave, ma latente, quell’insofferenza di larghe sfere giovanili, studentesche e operaie, che si coagulò poi nella rivolta del ’68 e dei primi anni settanta.
Il programma di Raniero Panzieri, dirigente socialista di orientamento comunista, a quel tempo emarginato dalla direzione del suo partito sempre più orientato al compromesso politico col centro, e intorno a lui del gruppo dei «Quaderni rossi», partiva da una fedeltà alla elaborazione di Marx e da una presa d’atto che la politica dei partiti della sinistra italiana non corrispondeva né a quella elaborazione, né alla realtà della coscienza dei lavoratori e della lotta di classe nel presente. Di qui, l’organizzazione di una ripresa dello studio diretto dei testi marxiani, onde liberarsi da quanto più o meno arbitrariamente vi era stato costruito sopra, deformando la teoria in dottrina e dogma – specie ad opera del cosiddetto “marxismo sovietico”; e il metodo dell’inchiesta sulle reali condizioni – oggettive e soggettive – della classe operaia, quale premessa indispensabile per l’elaborazione di una nuova strategia politica orientata dal pensiero di Marx. Si tenga conto del luogo privilegiato in cui operavano i «Quaderni rossi»: la città di Torino, dominata dalla presenza della maggiore fabbrica italiana; i cui lavoratori fin dal dopoguerra avevano manifestato un forte spirito propriamente “di classe”, e di indipendenza dagli indirizzi del movimento operaio ufficiale.1 Il lavoro dei «Quaderni rossi» anticipò e indirizzò gli aspetti più sani e creativi nei movimenti di massa che ebbero poi inizio nel ’68-’69, là dove si indirizzarono a uscire dai ceppi della politica ufficiale sclerotizzata di una sinistra che con i suoi giochi di potere imponeva un ulteriore fardello sulle spalle dei lavoratori, dei giovani, delle donne.
Dell’inchiesta si tratta nel numero 5 della rivista «Quaderni rossi», preparato in parte mentre Panzieri era ancora in vita e pubblicato dopo la sua morte. La parte centrale del fascicolo riferisce di un seminario tenutosi a Torino nel settembre 1964 sull’Uso socialista dell’inchiesta operaia. Precedono tre articoli sulla stessa tematica, di Dario Lanzardo (Intervento socialista nella lotta operaia: l’inchiesta operaia di Marx, con in appendice il testo del questionario marxiano),2 di Pino Ferraris (Giornali politici nelle fabbriche del Biellese), di Giovanni Mottura (Note per un lavoro politico socialista). Segue una documentazione-discussione su indagini recenti sulla classe operaia, e su inchieste fatte alla FIAT e all’Olivetti nel 1961. Il titolo riassume chiaramente l’intento della pubblicazione: Intervento socialista nella lotta operaia. Lotta operaia: protagonismo degli operai autori della propria liberazione, così come era inteso da Marx. Intervento socialista: posizione non neutra né neutrale di chi conduce l’inchiesta, ed è orientato secondo una ipotesi teorico-politica. I due aspetti vanno coniugati. Si comprende quindi perché, nel preparare l’inchiesta, sia stata studiato anche lo schema proposto da Marx nel 1880.
Nella trattazione dei primi tentativi di inchiesta sono rilevanti e le discussioni sul metodo: se adottare o meno i criteri sociologici correnti. Credo che la lettura di questo numero di rivista possa essere utile a chi intendesse accingersi a un’impresa analoga nelle condizioni di oggi. Non per riprodurre o comunque imitare i metodi di allora, ma per essere richiamati sull’importanza delle questioni di metodo, di come si debba costruire un sistema organico di ricerca anche tecnicamente valido, evitare domande casuali o errate; e avere sempre ben presente il fine: l’acquisizione di una coscienza comune a intervistatori e intervistati quale vero cammino verso la conoscenza.
L’inchiesta dei «Quaderni rossi», che parte dall’inchiesta di Marx, per alcuni aspetti si avvicina a quella di Mao Zedong. Nel caso di Mao, per interpretare la realtà viene assunta una teoria che per qualche motivo non pare sufficiente o adeguata a interpretarla: si tratta di verificare se e come i contadini possano essere la classe antagonista fondamentale del capitale, nelle condizioni cinesi. Nel caso dei «Quaderni rossi», l’inchiesta dovrebbe chiarire se e come nell’Italia negli anni sessanta gli operai possiedano i caratteri di classe antagonista disegnati da Marx, quando l’evoluzione delle organizzazioni che dovrebbero rappresentarli e le teorie sociologiche correnti tenderebbero ad escluderlo; e in ogni caso, a esplorare che cosa siano divenuti gli operai. Insomma, si tratta di esplorare una realtà che si presenta in qualche modo nuova e di metterla a confronto con una teoria di cui misurare la validità.
Nella quarantina d’anni trascorsi da allora, i cambiamenti nella società sembrano enormi; d’altro lato, i caratteri strutturali profondi del sistema del capitale non solo non paiono mutati, ma si sono esplicitati e rivelati con estrema chiarezza. Al potere del capitale nella sua forma più astratta (finanziaria) estesa sull’intero pianeta corrisponde un processo di colonizzazione e di generale espropriazione, non solo di beni materiali ma anche degli elementari diritti civili e umani; oltre alla distruzione in corso della possibilità stessa della vita sulla terra. L’espropriazione non avviene più (quanto meno, non solo) dentro la fabbrica. Soggetti direttamente al dominio e allo sfruttamento propriamente capitalistico sono gli abitanti delle zone rurali – la maggioranza della popolazione mondiale; ma anche, tanto nei paesi cosiddetti sviluppati o occidentali quanto in quelli detti sottosviluppati o del Sud, l’insieme di individui privi di capitale e in possesso unicamente della propria forza-lavoro: non necessariamente operai, non necessariamente lavoratori dipendenti.
Sergio Bologna anni fa fece uno studio sui lavoratori dei trasporti: spesso sono dei padroncini, nelle statistiche compaiono come piccoli imprenditori ma in realtà hanno tutti i caratteri dei lavoratori salariati salvo il salario.
Gli abitanti delle zone rurali sono soggetti attraverso il sistema dell’agribusiness e del sistema dei brevetti, che utilizzando poi le tecniche della biotecnologia fanno della penetrazione delle grandi multinazionali nella sfera agricola un intervento diretto e non più indiretto come accadeva in precedenza tanto nei paesi cosiddetti sviluppati o occidentali quanto in quelli detti sottosviluppati o del sud.
Alla condizione universale di spossessati corrisponde la frammentazione che impedisce di riconoscersi e la costruzione di gerarchie di ogni tipo che impedisce di unirsi. Mentre è facile, insomma, relativamente, individuare l’azione del capitale, e molte validissime ricerche e studi ci aiutano, gli antagonisti sembrano in quanto tali divenuti invisibili. Cioè sono un concetto astratto. Credo che un lavoro di inchiesta oggi sia estremamente necessario per ricercare, al di là di ogni apparenza e di ogni mistificazione e falsa coscienza, dove siano gli spossessati e gli oppressi, non solo fra i più miserabili, perché proprio oggi è in grande voga a causa del pensiero unico di rivolgersi sempre ai più disgraziati, rientrando però in un concetto che non ha più niente a che vedere con lo sfruttamento o con il concetto dello sviluppo del capitale. È un concetto perenne: “i poveri” (come se esistessero i poveri, così come se fosse una fatto di natura) e quindi bisogna essere “umani” verso di loro. E anche il concetto di solidarietà, che un tempo era il concetto di solidarietà tra i lavoratori che vuol dire mettersi insieme perché si hanno interessi comuni, viene deformato in un senso che vuol dire pietà, compassione, elemosina. Ma tutto questo non fa che portare acqua agli interessi del potere. Non si tratta quindi di beneficiare i poveri, di fare del volontariato, di creare ong. Credo che si tratti di un lavoro estremamente complesso, di verifica delle condizioni reali in tutte le zone della società, analizzando ogni particolare con metodo analitico, ma per ristabilire i collegamenti, rivelare le analogie, riconoscere le identità e portare a unire quanto è stato diviso. Perché questo concetto che oggi soltanto alcuni di noi vedono in forma astratta, perché lo vediamo solo come forma antagonista del capitale, deve ritornare ad essere, attraverso un’opera che può partire dall’inchiesta, una vera e propria ricostruzione di coscienza comune, deve ricostituire i rapporti fra i lavoratori. Insomma la famosa frase “lavoratori di tutto il mondo unitevi!” è la sola che può funzionare perché si possa costituire una forma di opposizione valida alla forma che si chiama neoliberista che poi è l’ultima forma in cui si organizza il capitale mondiale. Quindi l’inchiesta deve andare oltre voi stessi, così come proponete, proprio perché siete lavoratori della conoscenza e quindi siete in grado di farlo, deve essere anche inchiesta su qualche altro soggetto della società, per stabilire quali sono le differenze e le analogie e anche la comunanza di interessi, anche laddove apparentemente non c’è. Con le privatizzazioni sono state create delle forme di concorrenza proprio all’interno delle stesse categorie di lavoratori. Ciò avviene in tutti i campi. I lavoratori sono messi l’uno contro l’altro, in tutti i campi. Pensiamo ai subappalti Fiat, ad esempio, studiati da Vittorio Rieser.3 Non è sufficiente sul piano teorico dire che gli interessi sono comuni, è necessaria una coscienza comune. L’inchiesta può diventare uno degli strumenti con cui si riesce a far acquisire una coscienza di classe.
Luciano Vasapollo: Innanzitutto vi ringrazio dell’invito. Per la seconda volta partecipo ai seminari del gruppo Intrecci, per parlare delle modificazioni del mondo del lavoro. L’anno scorso abbiamo parlato più nello specifico delle questioni del precariato.4 Ringrazio Edoarda Masi per questo bellissimo intervento che peraltro mi facilita il compito perché, con molta modestia, sia io che i compagni del Cestes ci rifacciamo al contesto qui rappresentato, di analisi e di impostazione dell’inchiesta. Mi è stato chiesto di presentare appunto questo lavoro che stiamo facendo ormai da quindici anni con il Cestes e con la rivista «Proteo»: studi, inchieste di natura economico-sociale, rapporti diretti di inchiesta con i lavoratori e sul modo di produzione capitalistico nella nuova dimensione che va assumendo, realizzazione di libri e quaderni. L’ultimo è uscito proprio da una settimana, si tratta di un’inchiesta metropolitana che si muove intorno alla logica della nuova produzione sociale, la cosiddetta “fabbrica sociale”, della nuova produzione metropolitana: L’inchiesta metropolitana: mappe, metodi, fonti, riferimenti, Quaderno n. 2 dell’Osservatorio Meridionale di Cestes-Proteo, Edizioni Print, Roma 2007.
Già agli inizi degli anni Settanta, in particolare Negri e i “negriani”, hanno avuto grandi intuizioni con la questione non solo dell’operaio sociale, ma anche con la fabbrica diffusa, la fabbrica sociale, e tutto ciò che anticipava un po’ la precarizzazione del mercato del lavoro. Oggi parlare di produzione metropolitana, di lavoratore unico, di lavoratore metropolitano significa riprendere appunto quelle tematiche, in una prospettiva ormai lontana da quella portata oggi avanti da Negri.
Ma a parte questo discorso contenuto in questo opuscoletto che abbiamo presentato, abbiamo realizzato un’inchiesta che è durata cinque anni, dal 1998 al 2003, che è stata presentata in vari numeri di «Proteo» e poi raccolta in questa antologia che abbiamo chiamato La coscienza di Cipputi. Al governo c’era il centro-sinistra, negli anni ’90, con un’impostazione ampiamente neoliberista che apriva la strada a quello che poi ha fatto, in maniera forse meno violenta, lo stesso Berlusconi. Ricordo – perché è facile parlare della legge Moratti, della Bossi-Fini – però forse non tutti ricordano, non la porta ma il portone aperto dai governi di centro-sinistra negli anni ’90, per esempio con la riforma Berlinguer, oppure con la riforma delle pensioni che poi porta il nome di riforma Dini, le privatizzazioni. Guardate che il governo Berlusconi ha realizzato neppure un decimo delle privatizzazioni fatte dal governo di centro-sinistra. Pensate alla riforma Turco-Napolitano sull’immigrazione, pensate, per esempio, alla legge 30. Pochi ricordano che Rifondazione Comunista votò il pacchetto Treu del 1997 che precarizzava definitivamente il mercato del lavoro; pochi ricordano, quando si sono opposti giustamente all’ipotesi guerrafondaia di Berlusconi, la guerra “umanitaria” o “contingente necessità” di cui si parlava mentre si bombardavano popolazioni civili in Jugoslavia. Perché dico questo? Perché in quel periodo pochi si opponevano a questa deriva neoliberista, a questa deriva privatizzatrice: soltanto alcuni movimenti di base, alcune associazioni di base e spesso in forma molto isolata il sindacalismo di base. Rdb, Cub e Cobas scendevano in piazza negli anni ’90 contro la costruzione dell’Europa di Maastricht, un nuovo polo liberista e imperialista contro gli interessi dei lavoratori.
Il centro-sinistra, in tutta Europa, ha sposato più di tutti questo attacco alle posizioni del lavoro, all’Europa dei lavoratori, al salario sociale, al salario diretto, indiretto e differito. Contro la guerra e contro questa linea privatizzatrice scendevano in piazza i sindacati di base perché purtroppo la scelta dei sindacati confederali aveva già preso la piega pienamente concertativa e i partiti della sinistra avevano scelto ormai il consociativismo. E’ facile trovare dei parallelismi economici con questo nuovo governo Prodi di cui è chiara la natura già a partire dalla finanziaria, fino alla questione della precarietà, fino al problema del finanziamento delle missioni di guerra ed espansioniste: altro che missioni di pace in Afghanistan! Pensiamo al Medio Oriente, e non dimentichiamoci che i soldati italiani sono presenti ancora in Kossovo, nella ex Jugoslavia, in Libano, etc.
In quegli anni dicevamo che bisognava dare un substrato di natura anche culturale, ma di quella cultura operaia, di quella pratica che è l’inchiesta di classe, al sindacalismo di base. Nasce nel 1995 il centro studi Cestes, che ho l’onore di dirigere, e la rivista «Proteo» (www.proteo.rdbcub.it). Non ripeto le cose che diceva in maniera veramente chiara Edoarda Masi: il punto di partenza è stato l’inchiesta operaia di Marx, il lavoro e l’impostazione di Mao, l’esperienza dei «Quaderni Rossi», fino ad arrivare anche alle stesse esperienze di alcuni gruppi della sinistra extraparlamentare all’inizio degli anni Settanta come Potere Operaio in particolare, che riprendeva questa tradizione operaista.
Perché l’inchiesta? La coscienza di Cipputi si basa su un questionario distribuito in tutta Italia; si tratta di più di 2500 questionari distribuiti ai lavoratori stabili, ai disoccupati, ai lavoratori precari con oltre 90 domande che ripercorrevano lo stesso percorso del questionario di Marx. Si trattava di cogliere, per riprendere la battuta-titolo, La coscienza di Cipputi e di capire il grado di coscienza dei lavoratori sulle trasformazioni economico-sociali e produttive e anche, allo stesso tempo, per recepire dalla classe, dai lavoratori informazioni utili al nostro gruppo di ricercatori: studiosi come Alessandro Mazzone, Giorgio Gattei, Guglielmo Carchedi, ma anche a livello internazionale Remy Herrera, Ricardo Antunes, James Petras, Joaquin Arriola, Hosea Jaffe, alcuni compagni cubani, messicani etc. La caratteristica che ci siamo dati quando è nato questo gruppo di indagine, di inchiesta e di lavoro era che poteva lavorare un personale di un certo tipo: ricercatori, professori universitari, ricercatori sociali, militanti sindacali, militanti delle organizzazioni socio-politiche che però avessero la caratteristica di essere ricercatori organici al movimento di classe internazionale, che lavorassero per il movimento dei lavoratori ma che recepissero dal movimento dei lavoratori lo stimolo necessario per impostare l’inchiesta, per cercare di restituire al movimento dei lavoratori un tipo di analisi che potesse essere utile per la lotta, per la trasformazione, che potesse essere strumento per capire le trasformazioni sociali, economiche e produttive in atto. Per questo riteniamo fondamentale il contatto con movimenti sindacali e di base, come il movimento Sem-Terra, quello dei Piqueteros, la Confederazione Generale del Lavoro di Cuba, etc.; sul fronte italiano vale lo stesso principio, perché il Cestes è il centro studi dell’Rdb-cub e ha dunque un contatto con gli oltre 650 mila iscritti a questo sindacato che ha rappresentanti al CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro), con militanti che fanno della lotta la loro funzione principale, l’unico grande sindacato a non firmare l’accordo concertativo del 1993, cosa di cui ci vantiamo. Vi dico queste cose per dirvi che tutto quello che diceva la compagna prima lo condivido in pieno e il metodo di lavoro è proprio quello di partire dai bisogni e dalle esigenze dei lavoratori.
Dobbiamo capire cosa è avvenuto negli ultimi trent’anni. Un mondo produttivo ed economico non cambia casualmente, cambia per una crisi di accumulazione strutturale che il capitalismo ha ormai da oltre 30 anni. Ciò che voglio dire è che le privatizzazioni, le finanziarizzazioni, non si fanno perché non c’è niente da fare; come giustamente la compagna diceva prima non si parla più di classi, si parla di poveri, non si parla più di lavoratori giovani e lavoratori anziani ma si parla di conflitto generazionale. Cioè si usano una serie di nomi che l’ideologia e l’“immaterialità” del dominio capitalista usa per imbrogliarci. Di fronte a questo, noi che siamo materialisti fino all’osso, osserviamo che le prime crisi petrolifere hanno dimostrato che questo processo di accumulazione internazionale del capitale era in crisi e il capitale aveva bisogno di nuove forme per rilanciare l’accumulazione: le nuove forme sono state, al centro, le privatizzazioni, le finanziarizzazioni, l’attacco al costo del lavoro, le delocalizzazioni, le esternalizzazioni, dalle altre parti le guerre. Guerra significa economia di guerra, keynesismo di guerra: strumenti per il rilancio dell’accumulazione. L’economia statunitense cresce al 4%; se poi vado a disaggregare il dato, come faccio da economista, mi accorgo che cresce dello 0,6-0,7%, cioè sta quasi in stagnazione se non in recessione, mentre oltre i ¾ della crescita sono sostenuti dalla domanda bellica che consiste in pratica in armi, bombe, tecnologia indotta. È la distruzione per poi ricostruire, è chiaro. Prima uccidono la gente e poi ricostruiscono, così in questo modo sostengono il processo di accumulazione.
Dobbiamo allora chiederci che cosa è avvenuto. Sono avvenute delle trasformazioni economico-produttive importanti. Faccio un esempio. Il triangolo industriale italiano aveva una particolarità fondamentale. In un sistema di produzione fordista, inglobava all’interno dello stesso luogo di lavoro 80-100 mila persone. Ciò significava la possibilità da parte dell’avanguardia di classe di organizzare il conflitto. Il capitale comincia dagli anni Settanta a rispondere alla crisi di accumulazione, i sindacati optano per una scelta concertativa. Ricordatevi che la svolta dell’EUR è del 1978. Lama è stato cacciato dall’università 30 anni fa, e io rivendico di essere stato uno di quelli che lo ha cacciato. È stato cacciato dall’università nel 1977 proprio perché il sindacato e il Partito Comunista, nella migliore delle ipotesi, non avevano interpretato i bisogni di quello che veniva chiamato il proletariato giovanile. Il proletariato giovanile nel ’77 identificava un nuovo soggetto sociale che esplose in questi anni: c’era il nuovo precario, lo studente-lavoratore che stava all’università e poi in qualche modo nel quartiere per lavori e lavoretti che gli consentissero di sopravvivere per potere finanziare la sua presenza all’università. Questo nuovo soggetto di classe, questo nuovo soggetto proletario sfuggiva alla logica e alle dimensioni della Cgil. La mancata interpretazione di questo soggetto associata alla scelta concertativa della Cgil e alla scelta consociativa del Partito Comunista Italiano porta a una crisi. Ne parleremo anche domattina con la presentazione di Eppure il vento soffia ancora, in cui si cerca di indagare il movimento sindacale e il movimento dei lavoratori dal dopoguerra ad oggi attraverso il concetto dell’autonomia di classe. L’autonomia di classe con la “a” minuscola non l’“Autonomia operaia” degli anni Settanta. La classe ha vinto quando ha espresso momenti di indipendenza e di autonomia dallo sviluppismo capitalistico, non dalla politica ma dal partitismo e dal consociativismo.
Quanto detto finora trova poi tutta la sua esplosione nella metà degli anni ’70, quando la crisi strutturale del capitalismo porta ovviamente ad una ristrutturazione che passa attraverso le delocalizzazioni, le esternalizzazioni etc, ma che non significa scomparsa del fordismo. Il fordismo si è spostato soltanto di luogo, cioè al centro abbiamo la società cosiddetta dei servizi – terziario avanzato, servizi già a disposizione del processo di accumulazione del capitale, etc, per cui andrebbe rivisto e ripensato il rapporto tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo -, nei paesi delle periferie, in questa nuova divisione internazionale del lavoro, il fordismo trova la sua massima espressione, anzi non solo il fordismo, addirittura la schiavitù: in America Latina, in Asia, nell’Europa dell’est. Non è un caso che la produzione made in Italy è tutto tranne che made in Italy, cioè voglio dire, la scarpa che esce con la parte del ciclo ad alto valore aggiunto, il brevetto, il marchio di fabbrica, oppure l’assemblaggio nel Veneto, viene prodotta una parte in Albania, una parte in Romania, una in Bulgaria etc. e poi viene assemblata. Allora perché si procede alla delocalizzazione? Per due motivi essenzialmente: uno perché si rincorre il costo del lavoro più basso ma anche specializzato – il costo bassissimo sarebbe in Africa, ma non si va nello Zambia a produrre – l’altra perché si cerca il lavoro non normato, non sindacalizzato. Il problema è abbattere il costo del lavoro, ma anche la resistenza operaia e la resistenza di classe al dominio capitalista. E allora di qui viene anche l’impresa individuale, l’impresa che viene chiamata con strane parole, lavoratore autonomo di ultima, di seconda generazione, il falso lavoratore autonomo, che tutto è meno che lavoratore autonomo, perché è un poveraccio che è stato espulso a cinquant’anni dalla fabbrica e che cerca di trovare una forma di reddito.
Quindi attacco al lavoro, alle condizioni stesse del lavoro. Ebbene, che cosa allora deve fare un’inchiesta di classe? Che cosa deve fare oggi un intellettuale militante, un intellettuale organico? Deve evidenziare queste cose per renderle non solo digeribili, ma anche immediatamente percepibili dai lavoratori, perché il lavoratore non percepisce immediatamente la sua condizione di subalternità, a volte pensa davvero di essere un lavoratore autonomo, a volte pensa davvero di essere un lavoratore della conoscenza, quasi una forma di aristocrazia salariata rispetto al lavoratore manuale, quando invece con tutte le sue condizioni di precarietà e di sfruttamento sta forse peggio del lavoratore manuale, allora l’inchiesta di classe per noi a questo serve. È all’interno della classe, colloquia con la classe, dà gli strumenti alla classe e recepisce dalla classe le contraddizioni. Vi faccio degli esempi: l’inchiesta che abbiamo fatto per cinque anni su Cipputi, sulle nuove condizioni del lavoro, fa apparire dei risultati strani, ma che sono proprio quelli della realtà. Noi abbiamo fatto il questionario sulla base di alcuni parametri: produzione, situazione lavorativa, politica e sindacato, ruolo dello stato, condizione economica e sociale, etc., una serie di domande sulla situazione oggettiva del mondo del lavoro, sulla percezione della politica e dei partiti, sulla percezione della propria condizione di classe etc. Escono cose estremamente interessanti, per esempio esce fuori che al livello di coscienza non c’è assolutamente una relazione tra pessime condizioni di vita e coscienza del proprio ruolo. Voglio dire che se si fa un’inchiesta come l’abbiamo fatta noi, con i parametri scientifici del campionamento, non succede ciò che è successo alla Cgil: qualche anno fa anche la Cgil ha fatto un’inchiesta, con sociologi anche bravi, però era falsata da un fatto, dal non avere una parametrizzazione a campioni, perchè svolta all’interno delle feste dell’Unità e di Liberazione, dove hai un lavoratore che è selezionato, che ha un certo tipo di idea, e non poteva uscire il risultato che era uscito a noi, cioè che l’operaio, il proletario del Veneto vota la Lega e vota Forza Italia in cui vede la possibilità di trasformazione, perché si è rotto le scatole dei partiti. Perché per loro la Lega rappresenta una possibilità di superamento della condizione di subalternità, e non ti esce fuori che proprio questi lavoratori fino a dieci anni fa votavano i partiti della sinistra. Questa è la classe operaia, questi sono i lavoratori della Cgil e del Pci che in modo sbagliato protestano contro il consociativismo e si affidano al populismo della Lega. Sulle privatizzazioni c’è un altro risultato fondamentale che smentisce la percezione diffusa.
Finché parli di privatizzazioni delle imprese, capendo e non capendo, il lavoratore risponde che le privatizzazioni vanno bene perché renderebbero i servizi più efficienti, lo stato è inefficace, etc. ma quando tu gli chiedi: “Che ne pensi della privatizzazione dell’istruzione, della salute, della sanità etc.?”, allora ti dicono: “no, queste sono questioni intoccabili, il welfare, lo stato sociale deve essere gestito dallo stato”. Vengono quindi fuori degli elementi contradditori che apparentemente tu non recepisci. Inoltre viene fuori quello che abbiamo chiamato “riformismo strutturale” e cioè: anche la parte più arrabbiata non va oltre la lamentela. C’è paura della trasformazione radicale. La coscienza di classe è di conservazione. L’intervistato ha paura. Ecco perché la oggettività, pessima, se non ha la soggettività di classe, non permetterà mai di fuoriuscire da un contesto capitalistico. Con questo non voglio sostenere il “tutto e subito”. Col sindacato si procede per piccoli passi, il terreno è quello. Il sindacato metropolitano si deve occupare di territorio e di quartiere. Bisogna avere presente un quadro di riforme strutturali avendo presente un orizzonte di superamento del capitalismo. Come dice il mio amico Alessandro Mazzone, noi dobbiamo lavorare come se la rottura di classe arriverà tra 500 anni, ma chi dice che non avvenga tra 5. Si deve lavorare nella prospettiva di lunga, lunghissima durata. Noi siamo chiamati al lavoro comunque. Siamo chiamati al lavoro per far crescere la coscienza di classe, siamo chiamati al lavoro d’inchiesta per dare informazioni etc. proprio perché abbiamo bisogno che cresca la coscienza dei lavoratori. Oltre a questa inchiesta sulle trasformazioni economico-produttive, abbiamo fatto altre inchieste sull’Europa: Eurobang, per es. sul ruolo dell’Italia nei processi di delocalizzazione, altre sulle aree metropolitane, altre sul pubblico impiego. Stiamo facendo adesso questo lavoro sulle aree metropolitane e sulla produzione metropolitana. Ci siamo occupati della condizione dei lavoratori. Io penso, andando a concludere, che prima di tutto la condizione è stare in mezzo ai lavoratori, perché se non si sta in mezzo ai lavoratori si fanno le fughe in avanti, i salti in avanti senza fare i conti con la realtà. Quindi partire dalle condizioni dei lavoratori, ma sapere anche innalzare questo livello di coscienza attraverso metodi scientifici, culturali, di rapporto, corsi di formazione, non solo su Marx, ma quando fai un lavoro di formazione con i lavoratori del pubblico impiego non puoi porla direttamente sulla teoria, ma devi partire dalle condizioni reali. Il piano tattico è di riforme strutturali, la strategia è di superamento del capitalismo. Dall’altra parte, non solo riprendere il metodo dell’inchiesta diffusa, ma soprattutto riscoprire il significato vero della solidarietà internazionalista, perché se noi pensiamo che il mondo finisce all’Italia o finisce all’Europa, secondo questa mentalità eurocentrica tipica anche della sinistra cosiddetta radicale, ci perdiamo il fatto che per es. in America Latina esiste il conflitto, la trasformazione. C’è un polo rivoluzionario (Cuba e Venezuela) e uno riformista (Brasile, Argentina, etc.), c’è il Messico: pensiamo al movimento di Oaxaca o al movimento contro le privatizzazioni dell’università. Hanno avuto 22 morti, 400 feriti, trecento arresti. Tra questi centocinquanta compagni dei quali non si sa in che carcere sono detenuti, e sono passati quattro mesi. Stiamo parlando del Messico democratico che vorrebbe dare lezioni di democrazia a Cuba e al Venezuela. I cari compagni della sinistra radicale comincino a pensare che esiste un mondo fuori dall’Europa dal quale imparare! Il movimento dei lavoratori è uno, la contraddizione fondamentale conflitto-lavoro si risolve sul piano internazionale. Se loro rilanciano la globalizzazione neoliberista a livello planetario, o si risponde su questo piano o non se ne esce. Questo è il compito che ci dobbiamo dare e su questo bisogna strutturare l’inchiesta operaia.
Alessandra Reccia: Due cose mi sembrano importanti da sottolineare: il metodo dell’inchiesta diffusa e di organizzazione di più soggetti e la prospettiva internazionalista che diventa necessaria per capire, per relativizzarci. Per quanto riguarda le strutture sindacali finora i loro tentativi di soluzione sono fallimentari, e non hanno nessuna possibilità di andare avanti. La famosa FLC (Federazione Lavoratori della Conoscenza) è un’organizzazione a priori, che non ha rappresentanti, che non ha uno studio di partenza e che spesso ostacola i movimenti di base.
Su fordismo e postfordismo: la convivenza avviene anche negli stessi luoghi. Il sindacato tradizionale ancora non ce l’ha chiaro. Il nostro problema principale è la forma di organizzazione che ci dobbiamo dare. È un problema grave perché ci impedisce il movimento, perché non possiamo fare riferimento ad un partito, non sappiamo come parlare tra di noi.
Un altro problema è il rapporto tra le rivendicazioni quotidiane, diciamo così, le rivendicazioni minime, e le prospettive politiche. Noi non sappiamo realmente se abbiamo delle prospettive politiche. La Rete nazionale dei ricercatori precari è un luogo che esprime pienamente questa difficoltà. Si tende appunto al riformismo, piuttosto che al cambiamento, però ci rendiamo anche conto che è più utopistico pensare che possa esistere un piano di riforme capaci di cambiare la nostra condizione, o le condizioni generali.
La gente che lavora all’università non sa neanche cosa si fa all’università, non capisce che l’università fa attività produttiva: ci dicono che non si “sentono” precari. Il che rimanda a un problema di autocoscienza politica.
Maria Vittoria Tirinato: Mi pare importante ciò che è stato detto sul tentativo del gruppo dei «Quaderni Rossi» di darsi degli strumenti teorici, di recuperare la teoria di Marx, oltre gli ortodossismi. E si è parlato di un luogo privilegiato, in quel momento la Torino della Fiat. La classe ha in quella fase un momento di autonomia importante. Il discorso si lega al problema dell’autonomia di classe. E della coscienza di classe, del non percepirsi come soggetti di classe, come diceva prima Alessandra. C’è oggi un luogo, o più luoghi in cui questa autonomia si può sviluppare? E l’inchiesta può contribuire a innescare questo meccanismo? Possiamo intenderla come uno strumento per acquisire coscienza ma anche di stimolo negli intervistati. Inoltre, come è possibile per me, che sono una precaria della ricerca, trovare degli elementi di unità, di collegamento, per fare un esempio, con una badante dell’est Europa? Come si organizza un discorso del genere? Forse noi ancora non siamo pronti a farlo e abbiamo bisogno di strumenti teorici e di modelli.
Edoarda Masi: Credo che sia impossibile rispondere in questo senso perché se ci fosse una risposta sarebbe la risposta di qualcuno che sta creando una nuova organizzazione politica, cioè che si trova molto avanti già in un progetto. Mentre noi siamo estremamente indietro, lo siamo oggettivamente. Perché è stato distrutto tutto un terreno, con tutte le sue contraddizioni, anche con tutti i difetti che avevano i partiti politici e tutto quanto, però ad oggi, tutta una costruzione politica che è il risultato di lotte di due secoli è stata praticamente annientata. Si tratta di cominciare di nuovo a studiare nella nostra società e ci troviamo in una situazione di cui noi non abbiamo tanti elementi, possiamo recuperare tante cose, però, il punto è che noi siamo in Europa, quindi si pone la condizione che Vasapollo aveva prima posto, di ragionare sul piano mondiale. Ora, io sono convinta che oggi l’Europa in questo senso non è il centro del mondo, mentre forse nell’Ottocento lo era, come paese colonizzatore. E quindi di questo, se uno vuole avere una specie di visione della costruzione politica generale, ne deve tener conto, ma anche qui non c’è una coscienza di base, non c’è una direzione da prendere. Non c’è niente in questo momento. Tra l’altro né Vasapollo né io abbiamo accennato ad un fatto, che uno degli strumenti con cui vengono confuse le coscienze è il fatto che non si contrasta la famosa, soprattutto in questi paesi (chiamiamoli più ricchi), società dei consumatori, questa ideologia dei consumi. Quindi questa ideologia del consumo che è quella che poi crea nelle coscienze un sacco di equivoci. Per cui è molto difficile far capire, anche semplicemente con un ragionamento, ad un lavoratore, un operaio italiano, che finché i lavoratori cinesi hanno i salari che hanno, tutto questo va a svantaggio non dell’Italia rispetto alla Cina, ma va a svantaggio dei lavoratori italiani rispetto al capitale, sia italiano che cinese. Ora questo qui teoricamente glielo puoi spiegare, però di fatto lui si sente il rivale del lavoratore più povero, quello cinese. Questo finché lo scopo è il consumo, il consumo oltretutto di una quantità di oggetti inutili. Ci sono un sacco di negozi in cui non riesco a capire cosa si vende. C’è la mentalità del consumatore parassitario che è diffusa tra tutti, anche tra quelli che hanno redditi molto bassi. È un’ideologia dominante spaventosa che sarebbe da combattere. Ma non si può affrontare di colpo. Per esempio, il lavoro che fa il Cestes è un lavoro eccellente, perché loro fanno un inchiesta bene appoggiandosi anche a un sindacato. Però è anche vero che oggi noi non abbiamo di fronte una classe operaia così come poteva essere ai tempi di Marx o anche dopo, cioè un luogo privilegiato. Né possiamo dire che la classe operaia è diminuita, anzi. Tutto questo uno può arrivare a vederlo e a costatarlo. Come si trasforma tutto questo in coscienza di classe? È molto difficile, perché è molto difficile abbattere la falsa coscienza. Questi lavoratori sono poi estremamente infelici, ma non ne sanno le ragioni. Probabilmente si potrebbe iniziare facendo un’inchiesta laddove c’è una lotta. Lì è il punto dove si può cominciare a scavare e vedere se c’è una coscienza. Al momento questo possiamo fare.
Luciano Vasapollo: Per aggiungere poche cose: oggi c’è una crisi fortissima della rappresentanza del movimento di classe. Né Prc, né Pdci, né Cgil oggi sono i rappresentanti del movimento di classe. Il problema è anche che oggi il movimento politico non ha rappresentanza. Oggi esiste un movimento dei lavoratori articolato e diversificato, va dai precari, agli operai, ai disoccupati, agli immigrati, ai soggetti del lavoro a tempo pieno, a tempo determinato, esiste un movimento dei lavoratori che non è concepibile, si parla di milioni di persone in Italia, come quello degli anni Sessanta e Settanta,. Esiste un movimento di classe ma la capacità di un marxista è quella di analizzare la realtà che si trasforma e di cercare di individuare quello che sta succedendo: non analizziamo oggi l’operaio-massa. Vorrei precisare un punto: un conto è il sindacato confederale, un conto è il sindacato di classe. Se la produzione si diffonde nel territorio, se il rapporto è individualizzato, se aumenta il lavoro a domicilio, etc, se ci sono interessi che sono esterni al luogo del lavoro, allora questo è il livello dello scontro di classe. L’inchiesta va fatta lì. Per percepire strumenti e restituire strutture interpretative del conflitto e della trasformazione. Là dove vedi insieme dipendenti pubblici, operai, lavoratori della conoscenza, nuove forme del movimento di classe. Inoltre dobbiamo parlare del problema dell’autonomia di classe, che non è autonomia dal politico, ma l’espressione del movimento operaio fuori dalle compatibilità sviluppiste. Pci e Cgil sono entrati a un certo punto pienamente delle compatibilità Se non poni il problema del superamento della produzione capitalistica, lì è finita l’autonomia di classe: l’autonomia di classe è l’autonomia non solo dal partitismo, ma il concetto chiave dell’autonomia, così come ne parleremo più compiutamente domani in cosa consiste secondo me? Nel fatto che la classe operaia non può necessariamente per la sua funzione stare nella logica della compatibilità dello sviluppo capitalistico. Ci possono essere momenti identificativi di riforma, ma l’orizzonte deve essere quello della trasformazione. Quindi quand’è che il movimento operaio italiano e il movimento di classe si è dato forma? Quando si è organizzato nelle fabbriche, quando si è organizzato al di fuori delle logiche produttivistiche dei premi di produzione, quando insieme al sindacato della fabbrica c’era il movimento degli studenti, i consigli di zona, la lotta sui e nei quartieri, tutta una serie di lotte. Questo è un concetto che va ricostruito. La sfida grossa è sul sindacato sociale, il sindacato del territorio.
Edoarda Masi: Nei primi anni Sessanta, la nuova sinistra aveva difficoltà a trovare operai. Riuscire solo a parlare era un’impresa difficilissima. Una volta un nostro compagno americano partecipò a una riunione torinese. C’era un operaio e il nostro ospite, sorpreso, disse ad alta voce: “A real worker! A real worker!”
Quando la lotta non c’è la cosa è difficile. Ma la storia mica la fabbrichiamo noi con le nostre idee, mica è stato Mao a provocare la rivolta dei contadini.
Antonio Allegra: Vorrei sapere come cominciare a immaginare un questionario un po’ slegato dai luoghi di lavoro, ma di tipo sociale nei quartieri di periferia, negli agglomerati urbani. Come si imposta? È utile? Quale strumentario è necessario? Esiste un criterio, un “ricettario” su come svolgere un’inchiesta in queste realtà?
Luciano Vasapollo: Stiamo facendo un lavoro su dieci aree metropolitane italiane. È un lavoro di inchiesta, forniamo suggerimenti per un questionario, ma non esiste un ricettario, perché ogni situazione presenta caratteristiche e problematiche proprie. Bisogna certo conoscere il territorio, la sua dimensione produttiva. Oggi, con l’impresa sociale, devi conoscere tutto del territorio. Altrimenti rischi di produrre domande sbagliate. Le indagini devono partire dalle fonti ufficiali. Sapendo ovviamente che il dato ufficiale è falso perché lo si falsifica: prima dovevi dichiarare se avevi un lavoro continuo, ora anche il lavoro precario fa risultare occupati. Sicuramente bisogna stare attenti alle falsificazioni dei dati (a volte risulti occupato anche se hai fatto soltanto due ore di lavoro la settimana prima), inoltre bisogna leggerli alla luce del conflitto di classe e cercare di fare le domande giuste. A partire dalla dimensione di conflitto. Poi certamente c’è un livello tecnico, su come costruire le domande, etc. Non ci sono regole fisse, ma deve esserci la conoscenza della dimensione di classe. Infine devi stare attento a non fare il sociologo di classe, il ricercatore, ma devi immergerti completamente in essa.
1 Si legga in proposito: L. Lanzardo, Classe operaia e partito comunista alla FIAT – La strategia della collaborazione: 1945-1949, Torino, Einaudi, 1971.
2 Nel 1999 la casa editrice napoletana La città del sole ha ripubblicato il questionario marxiano, con una introduzione di Gianfranco Pala, insieme a una serie di materiali di accompagnamento che meglio chiariscono la genesi e il contesto politico-culturale di riferimento: K. Marx, L’inchiesta operaia. Il significato attuale [N.d.R.].
3 Cfr. G. Cerreti, V. Rieser, Fiat: qualità totale e fabbrica integrata, Roma, Ediesse, 1991.
4 Si fa riferimento a un seminario organizzato dal Gruppo Intrecci il 22 maggio 2006, a Siena, dal titolo L’uomo precario. Nuove forme del lavoro e del vivere sociale. Anche di questo incontro pubblicheremo al più presto una trascrizione [N.d.R.].