«L’aria una pagina bianca»
Rocco Scotellaro tra lirismo, autobiografia e inchiesta
Daniele Visentini

All’interno del panorama composito e ricco di spunti artistici del secondo dopoguerra, Rocco Scotellaro si distingue come figura di poeta prima, quindi d’intellettuale in senso ampio, complessivamente singolare, mai riducibile a confronti di sorta né leggibile da una mera ottica di scuola, di corrente. L’interessamento precoce alla poesia; la pronta emancipazione stilistica dal modello ermetico di Sinisgalli che gli permise, a partire dalla metà degli anni Quaranta, di sviluppare una tecnica e un sentimento poetico inediti; infine, l’ancoraggio saldo a ideali politici esperiti sino al coinvolgimento diretto nelle sorti della neonata Repubblica Italiana, come sindaco di Tricarico, sono tutti elementi che concorrono a distinguere Rocco Scotellaro dalla congerie intellettuale coeva e a farne, si potrebbe dire senza esagerazione, un isolato.

Prima che come poeta, prima che come prosatore, prima ancora che come reporter d’estro inedito e folgorante intuito quale egli si mostrò nelle pagine di Contadini del Sud, Scotellaro andrebbe definito nella sua complessità di scrittore; un termine, quest’ultimo, che pare più appropriato di altri a connotare la sua personalità letteraria. Egli, infatti, mirò a una scrittura intesa come fissazione definitiva di una voce non individuabile univocamente nelle necessità espressive del singolo, dell’autore nella sua soggettività, ma anzi composta dal coro remoto di voci che avevano ispirato sin dall’infanzia la memoria poetica, fondandone gli accenti più sinceri: a prendere corpo sono proprio i contadini del Sud, da un lato considerati in senso simbolico quali primigeni realizzatori di un moto poietico innato nell’uomo, dall’altro descritti concretamente come rappresentanti del mondo di Scotellaro. Lo stesso realismo e l’anti-musicalità raggiunti in alcuni passaggi delle poesie, più che frutto di quelli che Pasolini avrebbe definito lapsus, sono invece segnali d’una adesione totale al proprio “Io” svelato – quasi che si trattasse d’un sistema di lenti bifocali – attraverso il volto di una terra intera, la natia Lucania.

Sotto questo punto di vista, Scotellaro prende le distanze sia dal magismo siculo di un Vittorini o dal realismo estetizzante di un Alvaro, sia dalla letteratura meridionale più propensa a imbrigliare le redini del neorealismo ideologico, che giungerà ai suoi più compiuti risultati nell’ambiente napoletano degli anni Cinquanta.

Motivo di distinzione non secondario, tra l’altro, è la stessa insistenza sulla modalità di scrittura in versi, che solo alla fine della breve carriera dello scrittore sfocerà in un prosa comunque non esente da manifeste connotazioni liriche. Verrebbe da pensare, in tal senso, a un accostamento al Pavese di Lavorare stanca, il quale però a differenza di Rocco Scotellaro non giunse mai a una completa immedesimazione con un esterno plurivoco e socialmente ben connotato. Lungi da qualsivoglia apertura (perché, gnoseologicamente, corrisponderebbe a una limitazione) al campo del mito, Scotellaro sussume invece la propria storia singola nell’ambito di una storia collettiva che è pur sempre “Storia”, scevra cioè di ogni accento antirealistico. In altre parole, se nell’approccio del Pavese poeta alla propria terra si possono scorgere forti accenti mitici, essi scompaiono nei componimenti maturi di Scotellaro, e ancora meno appariranno nelle inchieste sui Contadini del Sud o nei frammenti ruvidi e increspati dell’Uva puttanella.

In particolare nel suo ultimo tentativo di scrittura – ché di romanzo a tutti gli effetti, come dimostrarono già nel 1984 le indagini abbastanza meticolose affrontate dall’Angrisani, non è lecito parlare1 – Scotellaro mostra tutta l’energia performativa del proprio afflato nel contempo ideologico e intensamente poetico. Nei frammenti superstiti dell’Uva, in effetti, lo scrittore s’impegna dapprima a denotare la fisionomia complessiva dei contadini del Sud, poi a connotare, quasi facendo convergere in un sinolo allegorico la propria aspirazione lirica e la necessità d’un intervento fattivo sul terreno della storia, gli acini ammaccati, rancidi di mosto di quell’uva puttanella che è perfetta rappresentazione del popolo lucano: una società coesa solamente nel suo atavico dramma esistenziale, irriducibile tanto alle istanze dell’individualismo borghese quanto a una facile visione comunitaria del mondo contadino. L’allegoria della vigna, simbolo cristiano dell’umanità per antonomasia, è quindi simultaneamente ripresa e stravolta: nessun provvidente viticoltore se ne occupa più e dove «una volta c’erano due sorgenti di rose e di edera che coprivano le canne erette e davano l’ombra con le viti alla stretta rotonda, avanti la casetta», ora non rimanevano che «il filo di ferro tra le canne e le lamiere […] e sarmenti secchi nella rotonda».2 In un presente in cui le speranze di redenzione storica e politica si fanno sempre più rade, gli acini perciò inselvatichiscono, gemmano assecondando la sola geometria del caso.

Come si vede, la scrittura allegorica viene riscoperta nel suo originario valore dialettico, nella sua capacità di coagulare e portare in superficie la linfa vitale e apparentemente imprendibile della realtà.

Non si deve credere, dunque, che Scotellaro indirizzi la propria ispirazione lirica verso un allegorismo ozioso, utile solo a sfuggire un attento esame storico, politico ed economico dell’ambiente circostante. Al contrario, l’allegoria sa cogliere al vivo la voce del popolo e diviene, perciò, mezzo privilegiato d’intervento sul tessuto della realtà, assumendo connotati ideologici che non devono e non possono prescindere da una coerenza formale mai smentita da Rocco lungo tutto l’arco della propria produzione letteraria.

Compito primario non soltanto dell’allegoria ma dell’intero impianto lirico, allora, è proprio quello di ricomporre in un insieme pieno di senso il privato e il pubblico, il mondo contadino e la sua vicenda storica, lo scrittore e il rapporto con la sua terra; ed ecco come, ad esempio, l’annuncio della guerra va a inserirsi ex abrupto nel racconto autobiografico degli anni trascorsi dal giovane Rocco presso il Convitto dei Cappuccini di Sicignano degli Alburni:

Stavano costruendo un’ala al secondo piano per un’altra camerata, noi ogni giorno uscivamo per due ore ad arrecare i mattoni sulle spalle. Mi sentivo bene, pregavo di più, lo scrissi a casa.

Il muratore disse un giorno: – È scoppiata la guerra, andate a pregare.

Il più studioso si mise a parlare dell’Abissinia e dava le notizie nelle ricreazioni, parlava dei generali. Da dove sapeva quelle cose? da dove seppe che quel locomotore imbandierato che si vide saettare giù nella stazione era una staffetta e dietro venivano certi capi d’Italia? Leggeva il giornale che gli passava il vecchio padre che era del suo paese. Parlavano tutt’e due nell’ora di latino di queste cose e tutti erano contenti perché si aveva altro tempo a ripassare le lezioni.3

Sempre su questa linea, gli eventi più significativi della storia possono schiudersi addirittura a partire da una prospettiva naturale, dove la dicotomia tra natura e storia, come quella tra evento pubblico ed evento privato, si ricompone in un ‘tutto’ tragico proprio in quanto indisgiungibile. E allora lo sbarco degli alleati si rintraccia già nei connotati atmosferici che preludono alla sua descrizione; proprio come le sorti degli uomini, l’aria stessa si rinnova e sembra disporsi a essere riscritta nello sguardo attento e appassionato di Scotellaro, che riesce a saldare in un solo, rapido movimento le proprie emozioni e la sconcertante esattezza del dato esterno:

Il 18 settembre venne una giornata fresca e l’aria una pagina bianca. Potevano essere le dieci del mattino; l’ora della contentezza del mondo, ognuno si è istradato, nel paese e fuori in campagna e oltre le montagne.

Sarebbero giunti gli inglesi, le donne e i pizzaiuoli dovevano essere poche centinaia, stettero a guardare la rotabile verso la Serra, il sole che sorgeva di là alle dieci si era spostato sul Basento.4

A tal proposito, è necessario precisare che nemmeno l’orientamento autobiografico dell’Uva puttanella, quel continuo intersecarsi di interno ed esterno, di vita pubblica e vita privata, di azione ed emozione è fine a se stesso. Sin dalle sue liriche più mature, Rocco sentì il bisogno di investire su un piano strettamente personale le proprie aspirazioni civili; così, ad esempio, nella poesia Paese mio, apparsa sulle pagine di «Basilicata» nel ventesimo anniversario della morte del poeta, Scotellaro criticava aspramente (ma lo faceva, si noti, usando la prima persona plurale) la mentalità chiusa, ottusa dei propri compaesani:

Ognuno di noi vuole essere il padrone
della nostra città medioevale
ed è geloso a morte dell’uguale.

e subito dopo, cambiando bruscamente registro, annunciava:

Io me n’andrò, sono un cane di nessuno
senza una porta da guardare
nelle notti di luna.5

Proprio come in questa poesia, anche tra le testimonianze in prosa dei Contadini e le vicende autobiografiche dell’Uva puttanella è possibile osservare il vincolo inestricabile che lega individualismo e senso della collettività: due concetti apparentemente antitetici, ma che nella scrittura di Rocco Scotellaro riescono a raggiungere un perfetto equilibrio dandosi vicendevolmente senso.

Partendo da tutte queste constatazioni, si comprende bene come in Scotellaro il lirismo degli anni giovanili venga piegato, nel corso del tempo, a rappresentare un ben preciso impegno sociale al quale di fatto l’intellettuale non rinunciò mai. Se tale formula venisse letta al contrario, si rischierebbe di fraintendere l’obiettivo primario di questa scrittura, ossia la comprensione totale del proprio popolo (nonché, di riflesso, del proprio “Io”), che non può essere realizzata se non facendo coincidere in un unico tratto allegorico il dato archetipico e quello più genuinamente politico: è la scrittura a cercare un compromesso con la realtà, mai viceversa.

In ciò sta pure il significato di un impegno concreto che va ben al di là di prerogative meramente corografiche, e anzi tende a universalizzarsi. Ovvio, dunque, che la semplice e preponderante interpretazione di uno Scotellaro «figlio del Sud» fallisce un obiettivo assolutamente primario nella definizione del suo percorso umano: la capacità che l’intellettuale mostra nell’oltrepassare i limiti di una ingannevole geografia della letteratura non pare, infatti, discutibile. Come intuì Franco Fortini, «Rocco non trama mitologie sulla sua materia; non inclina al dialetto; non si lascia sedurre dai facili neoclassicismi. Rappresenta, con una fedeltà dolente, con un’anima di latte e d’erba, il momento penoso del passaggio dal paese al mondo, senza rinnegare né tradire». La sua poesia, intesa in questo senso, rappresenta perciò «la celebrazione di alcuni dei momenti più alti della vita collettiva di una classe che prende coscienza di sé».6

Solo attenendosi a questi presupposti ci si può orientare in modo vantaggioso verso la riscoperta di una personalità niente affatto confinata nei limiti ristretti della propria regione, di una cultura contadina che si voleva a tutti i costi definire come immobile e impermeabile, ma anzi meritevole di maggior considerazione nel quadro delle contemporanee speculazioni tanto letterarie, quanto ideologiche intraprese in ambito nazionale.

Tale lettura a ben vedere permette anche di far luce sul reale peso ideologico dell’opera di Scotellaro e, per questo motivo, può essere utile a chiarire certi punti che dagli anni Cinquanta in poi vennero fatti oggetto di lunghi dibattiti politici e ideologici da parte di alcuni tra i maggiori esponenti della sinistra italiana.

Alquanto noto è il parere espresso nel 1954 da Mario Alicata il quale, tenendo conto dell’influsso esercitato sull’ultimo Scotellaro dalle dottrine del Rossi-Doria e, nello stesso tempo, dal sodalizio con Carlo Levi, sottolineò l’incapacità dello scrittore d’andare al di là di un primitivismo estetizzante, anti-gramsciano in quanto improntato a valutare la storia contadina a parte rispetto alla storia generale della società meridionale e italiana. L’immobilismo, la natura contemplativa di un progetto scrittorio nato conseguentemente all’«attività culturale “pura”»7 svolta da Scotellaro a Napoli tra il 1950 e il 1953 nell’entourage di Manlio Rossi-Doria sarà poi l’argomento su cui si soffermeranno anche Muscetta e altri esponenti di punta del partito comunista meridionale, come Giorgio Napolitano.8

Nel corso degli anni tali giudizi verranno rivisti solo in parte dalla critica di sinistra, se è vero che ancora nel 1980 Pino Iorio, sposando manifestamente la linea di pensiero di Alicata e leggendo di conseguenza Scotellaro attraverso la lezione di Carlo Levi e Rossi-Doria, affermerà che «le carenze del lucano, in sede politica, riflettono il mito, sentimentale e perciò forse un po’ romantico, d’un mondo agreste, nel Mezzogiorno, rassegnato ed immobile, segnale d’autonoma civiltà».9

Diverso sarà l’atteggiamento di Giannantonio, il quale in particolare avvertirà come indebita proprio la sovrapposizione del pensiero e dell’opera di Levi alla produzione di Scotellaro.10 Recentemente Russo e Anna Ferrari11 hanno ripreso tale spunto per parlare addirittura di un magistero capovolto, esercitato cioè a partire dal 1946 da Scotellaro sull’autore di Cristo si è fermato a Eboli.12

Allo scopo di comprendere le ragioni storiche su cui si fondò siffatto dibattito, vanno considerate innanzitutto le teorie espresse da Antonio Gramsci circa la Questione meridionale: lo stesso Alicata, promuovendo la lettura parallela di Levi e Scotellaro, suggeriva che il denominatore comune tra le posizioni primitiviste, misticheggianti del primo e le «incertezze ideologiche, politiche, umane»13 del secondo andasse ricercato in una scarsa comprensione del pensiero di Gramsci da parte d’entrambi gli scrittori. Riguardo a ciò, Alicata insisteva in particolare su tre punti ai quali molti critici successivi avrebbero poi fatto ritorno: al pari di Carlo Levi, Scotellaro concepì il mondo contadino meridionale come un universo unitario, granitico, separato rispetto al resto della Penisola; in secondo luogo, mancò nell’autore di Contadini del Sud la capacità di studiare «i diversi “mondi culturali” che si possono ricostruire nelle campagne meridionali nel loro sviluppo storico, vale a dire determinati nel tempo e nello spazio»; infine (ed è il punto vero di distacco dal meridionalismo gramsciano) Scotellaro, allo stesso modo di Levi, non seppe comprendere la necessità di uniformare il movimento di rivolta contadino alle sommosse operaie del Nord, al fine di costituire un generale e organico movimento di liberazione sociale nel decennio successivo al secondo dopoguerra.14

Per realizzare quale fu il grado di autonomia di Scotellaro rispetto alle tesi storiche e ideologiche del Levi, è pertanto opportuno riprendere i tre punti suggeriti da Mario Alicata e valutare, così, la disposizione di Rocco ad accogliere o meno i contenuti del messaggio gramsciano.

Per quanto riguarda il primo punto in questione, è chiaro sin dal prospetto di Contadini del Sud – ripubblicato da Rossi-Doria nella Prefazione al volume del 1954 e ripreso, recentemente, da Nicola Tranfaglia nell’Introduzione a L’Uva puttanella, Contadini del Sud15 – che Scotellaro non intendeva affatto sostenere l’esistenza di una società contadina compatta, unitaria. Al contrario, egli propose a Vito Laterza la pubblicazione di un’indagine che non solo si estendesse a ben quattro regioni del Sud, ma che di queste esaminasse, tramite i mezzi privilegiati dell’inchiesta e dell’intervista diretta, alcuni campioni umani diatopicamente e diastraticamente variegati: per la Campania, Rocco si impegnava a indagare sui contratti agrari stipulati nel Beneventano e sugli storici moti rivoluzionari di Montano Antilia, quindi a descrivere le zone canapicole dei comuni atellani e i centri circumvesuviani, facendo perno sulla produzione vinicola di Terzigno e San Vito d’Ercolano; in Calabria avrebbe studiato i territori intorno a Reggio, focalizzandosi sull’abbondante produzione d’olio di centri come Palmi e Taurianova, per poi soffermarsi sulle coltivazioni di gelsomino e sui bergamotteti caratteristici della costa che collega lo Ionio al Tirreno, fra Villa San Giovanni e Gioiosa Ionica; per ultimo, Rocco includeva nella bozza preparatoria un riferimento alla situazione economica del Salento (la produzione di tabacco) e al «minifondo» lucano di «Avigliano, Ruoti e frazioni».16

Oltre alla varietà di paesaggi umani cui prima si accennava, tramite questo sommario elenco di capitoli si può constatare l’estrema capillarità ed elasticità del metodo d’indagine di Scotellaro il quale, approcciando allo specimen dei Contadini del Sud, tenne conto di tre fattori concomitanti allo sviluppo del Mezzogiorno: quello schiettamente economico, legato da un filo rosso alla conformazione geografica del territorio; quello storico-politico, dallo studio dei moti cilentani all’interesse per «le roccaforti comuniste» di Cerignola e Andria e della lucana Irsina; infine, quello socio-culturale che, come suggerì Manlio Rossi-Doria, garantisce al piano dell’opera «un ordine che piacerebbe a un poeta e anche ad un economista agrario».17

Questa analisi, tra l’altro, inficia anche la seconda critica mossa da Alicata all’indagine di Scotellaro: la determinazione «nel tempo e nello spazio»18 che l’allora direttore di «Cronache meridionali» sentiva mancare nella prosa e nei versi di Rocco è tutta presente in nuce nel breve, laconico eppure cruciale prospetto di lavoro steso dallo scrittore due giorni innanzi alla morte. Come primo intento, esso si propone d’interpretare le specificità dei diversi mondi contadini, al di là di qualsiasi lettura sinottica che tenda, semplicisticamente, a far affiorare soltanto i tratti comuni alle varie realtà locali per ridurre queste ultime a un coacervo originario di cultura comune.

Infine, per smentire la terza annotazione critica di Alicata, è di grande utilità la lettura di un brano contenuto negli Scritti rari di Scotellaro, poco noto e ciò nonostante fondamentale, intitolato I contadini guardano l’aria. In esso il pensiero dell’autore potrebbe apparire conforme a quell’immobilismo anti-gramsciano di cui l’Alicata lo tacciò, specie quando viene spiegato il modo in cui gli agricoltori lucani «vestono e parlano e giudicano secondo un accordo che li avvince, si riconoscerebbero in qualsiasi parte della terra»;19 subito dopo, però, Rocco suggerisce: «bisogna […] aderire inizialmente a questi articoli statutari della concezione contadina della loro primogenitura e dei capricci del cielo, poi ti lasciano entrare».20 Alla fine, proprio in riferimento all’auspicato confronto tra la cultura dei contadini e quella degli operai, vengono forniti al lettore dei cenni tutt’altro che trascurabili:

Abbiamo discusso tante volte un artigiano, un operaio, un uomo che scrive e tutti loro. Nelle feste abbiamo potuto senza scosse mettere insieme il jazz e la zampogna. Perché? – Stiamo bene noi – dicevano – starete bene voi. Noi daremo il pane, voi farete le scarpe nuove, alle figlie daremo il mobilio e un corredo. Un giornale, un libro, eccome se bisognano!

Fu così che vennero a gridare con noi o a sorridere con l’occhio lucido come una zappa. Chiedono sempre ora «Come va per noi? Che dicono i giornali? Ce la faremo? Attenti e forti ce la faremo».

E proprio questa combattività intelligente (– abbiamo aperto gli occhi – dicono) è questa combattività che contrasta con tutta una vecchia storia del conservatorismo contadino, che si assume da qualche parte operi ancora nelle campagne.21

Le interviste ai contadini, lette da questa ottica, assumono un valore propriamente euristico: i connotati anarchici attribuiti ai contadini del Sud e, specularmente, all’autore stesso devono ben poco a una costruzione mitologica (come per Levi in letteratura e in parte per Rossi-Doria nel settore dell’economia agraria) e si profilano, invece, come il frutto di un processo storico che Scotellaro inquadra attraverso un attento studio di tipo descrittivo. In questo modo, egli offre al lettore un documento registrato al vivo delle problematiche sociali, politiche e culturali che affliggevano la propria regione e tutto il Sud d’Italia nelle prime fasi della nuova Repubblica e si dispone, nel contempo, a lavorare per un futuro cambiamento nell’assetto nazionale.

Lungi dal contrastare l’ideale gramsciano di una sinergia a venire tra i contadini del Sud e il Nord operaio, la lezione di Scotellaro non va quindi interpretata seguendo l’indebito parallelismo con la figura di Levi proposto dall’Alicata, ma neppure assecondando Pompeo Giannantonio, secondo il quale l’opera dell’ex sindaco di Tricarico apparirebbe in qualità di un «documento di umanità, più che manifesto politico».22 I Contadini del Sud, così come L’Uva puttanella e le ultime poesie di Scotellaro, danno invece forma a un documento umano inteso politicamente alla stregua di un manifesto, atto cioè a diagnosticare il morbo dell’Italia meridionale post-bellica isolandone un campione significativo. Qui sta il ruolo dello Scotellaro più autentico, che non è affatto quello neutro del poeta contadino, ma quello ben più complesso dell’uomo politico amareggiato che, tentando di riappropriarsi della propria cultura, si fa intellettuale. Pur intendendo la scrittura in senso attivo, Rocco la mette comunque al riparo da aprioristiche connotazioni di partito per riuscire a rappresentare in modo lucido e persuasivo il senso profondo di quella «schiavitù contadina» che si trasforma, paradossalmente, in «libertà»23 in quanto espressione sovversiva di un popolo per lungo tempo rimasto abbandonato a se stesso.
Nulla, insomma, che possa sembrare riconducibile a teorie immobilistiche sullo stato delle campagne meridionali, o tanto meno a una definitiva rinuncia alla politica intesa in senso attivo.

A seguito di queste precisazioni si comprende anche meglio come lo stesso impianto autobiografico dell’Uva puttanella di cui si parlava in precedenza, innestato sul tronco di quella sfiducia nell’autorità che aveva condotto Scotellaro a dare le dimissioni dalla carica di sindaco, sia in tutto funzionale all’inchiesta; lo ammette lo stesso scrittore nei suoi quaderni preparatori: «questo racconto», scrive infatti Rocco a proposito dell’Uva puttanella, «ha rasentato appena l’autobiografia e l’inchiesta che sono gli strumenti più diretti della comunicazione».24

La narrazione autobiografica dunque non solo convive con l’inchiesta, ma diviene assieme a essa la chiave di volta della comunicazione: è il ritrovato che permette all’uomo di farsi scrittore e allo scrittore di mantenere intatte, in un atto creativo necessariamente appassionato, le proprie più intime e sentite prerogative di uomo.

Smentendo una volta in più l’accostamento diretto di Scotellaro alle modalità scrittorie di Levi, si può dire allora che mentre per quest’ultimo il fattore autobiografico è funzionale all’«inchiesta», nell’Uva puttanella e in parte dei Contadini del Sud i due elementi comunicativi convivono, senza possibilità di una riduzione a qualunque forma di nichilismo. Nel momento in cui l’autobiografia e l’inchiesta vanno a saldarsi a scopo eminentemente comunicativo, si realizza in effetti una sorta di campionatura del dato reale, la quale, proprio a causa della sua vocazione comunicativa, non può che assumere un valore conoscitivo e, perciò, positivo; in tal senso Scotellaro si offre come rappresentante ideale di un intero popolo, di una storia collettiva: la sua personale sconfitta politica viene assunta a paradigma di un’ingiustizia generalizzata e si dispone a denotare la condizione contadina tout court.

Si giustifica così ideologicamente, in modo compiuto, anche quell’innegabile ispirazione lirica di cui si diceva all’inizio: è il continuo travaso dell’esperienza personale di uomo politico e di letterato nell’esperienza collettiva di un popolo a innervare la scrittura di Rocco e a permettere alla poesia di inquadrare, senza alcuno scarto, la storia.

Note

1 Cfr. A. Angrisani, L’«Uva puttanella» di Scotellaro, Roma, I.R.M.A.R., 1984.

2 R. Scotellaro, L’Uva puttanella, Contadini del Sud, Bari, Laterza, 2009, p. 5.

3 Ivi, p. 25

4 Ivi, p. 53.

5 «Basilicata», n. 4, a. 1973, ora in Omaggio a Scotellaro, a cura di L. Mancino, Manduria, Lacaita, 1974, p. 95, vv. 4-9.

6 F. Fortini, La poesia di Scotellaro, Roma – Matera, Basilicata editrice, 1974, p. 53.

7 M. Alicata, Il meridionalismo non si può fermare a Eboli, in «Cronache meridionali», 9 settembre 1954; poi in Omaggio a Scotellaro, cit., p. 156.

8 Si vedano rispettivamente C. Muscetta, Rocco Scotellaro e la cultura dell’«Uva puttanella», in «Società», 5, ottobre 1954; G. Napolitano, Personaggi nuovi delle campagne del Sud, in «Incontri, Oggi», settembre 1954.

9 P. Iorio, Limiti e lezione di Rocco Scotellaro, Napoli, Edizioni «HYRIA», 1980, p. 4.

10 Cfr. P. Giannantonio, Rocco Scotellaro, Milano, Mursia, 1986.

11 Si vedano rispettivamente G. Russo, Il contadino Scotellaro dava lezioni a Levi, in «Corriere della Sera», 12 luglio 2003, p. 33; A. Ferrari, «È fatto giorno, siamo entrati in gioco anche noi con i panni e le scarpe e le facce che avevamo»: Scotellaro fra tradizione e modernità, intervento al XII Congresso Nazionale dell’ADI, Moderno e modernità: la letteratura italiana, Università La Sapienza, Roma, 17-20 settembre 2008.

12 Qui va specificato che la notorietà stessa di Scotellaro, dopo la sua prematura scomparsa, si deve senz’altro al diretto intervento di Carlo Levi, il quale si dichiarò sempre convinto del primato assunto da Rocco nell’ambito della letteratura meridionale (si veda in particolare l’articolo Rocco Scotellaro per la libertà contadina, apparso sul numero di marzo del 1955 di «Cultura moderna»). Nel corso degli anni Levi tornerà frequentemente a citare Scotellaro come uno dei suoi maggiori punti di riferimento a livello letterario: ciò può confermare, in qualche modo, l’importanza assunta dalla figura dell’ex sindaco di Tricarico nel percorso artistico di Levi stesso (si veda, per esempio, l’intervista Cosa cambia nel Mezzogiorno. Tra letteratura e realtà, trasmessa dal Terzo programma Rai il 14 novembre 1972 e ora ristampata in C. Levi, Un dolente amore per la vita, a cura di L.M. Lombardi Satriani e L. Bindi, Roma, Donzelli, 2003, pp. 45-48).

13 M. Alicata, Il meridionalismo non si può fermare a Eboli, cit., p. 156.

14 Ivi, p. 153.

15 Cfr. l’Introduzione di N. Tranfaglia a R. Scotellaro, L’Uva puttanella, Contadini del Sud, cit., pp. XI-XII.

16 La Prefazione di Rossi-Doria a Contadini del Sud si trova ora nel volume Omaggio a Scotellaro, cit., pp. 277-78. Si cita qui il prospettto riprodotto alle pp. 277-278.

17 Ivi, p. 278.

18 M. Alicata, Il meridionalismo non si può fermare a Eboli, cit., p. 153.

19 R. Scotellaro, Scritti rari, in Omaggio a Scotellaro, cit., p. 17.

20 Ivi, p. 18.

21 Ibidem.

22 P. Giannantonio, Rocco Scotellaro, cit., p. 73.

23 Si vedano i vv. 1-3 della poesia Passaggio alla città, scritta in occasione del trasferimento a Portici, dove Rocco avrebbe lavorato accanto al Rossi-Doria: «Ho perduto la schiavitù contadina, / non mi farò più un bicchiere contento, / ho perduto la mia libertà», (R. Scotellaro, È fatto giorno, a cura di C. Levi, Milano, Mondadori, 1954, p. 152).

24 R. Scotellaro, Uno si distrae al bivio, Roma, Basilicata Editrice, 1974, p. 105.